Le competenze psicologiche nel ruolo di OEPAC nella scuola dell’infanzia: prime ipotesi attorno alla solitudine

di Arianna Morrillo e Giulia Piacentini

I cinque Malfatti, Beatrice Alemagna, 2014, Ed. I Topi Pittori

Siamo una psicologa e una laureanda in Psicologia implicate nella funzione di OEPAC – Operatore Educativo Per l’Autonomia e la Comunicazione – in scuole dell’infanzia del III e VII Municipio di Roma. Ci conosciamo attraverso il tirocinio che stiamo attualmente svolgendo presso l’associazione di promozione sociale Across, una come tirocinante prelaurea in Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni, l’altra  specializzanda in Psicoterapia Psicoanalitica. Entro il tirocinio condividiamo l’interesse a pensare insieme il lavoro e a scrivere questo articolo nell’ambito del laboratorio Owner On Air, interessato a tenere traccia del lavoro degli psicologi nella scuola.

Cos’è l’Oepac? Secondo la Regione Lazio, L’OEPAC è una figura che interviene “per potenziare  l’autonomia, i processi di apprendimento e l’inclusione dell’alunno con disabilità o in condizioni di svantaggio, in un’ottica non assistenzialistica rispetto al deficit, ma rivolta allo sviluppo delle competenze del destinatario“. L’Operatore dovrebbe integrare la propria attività con quella di altre figure (docenti curriculari, insegnanti di sostegno e personale ATA), valorizzando i diversi ambiti di competenza.

Come Oepac, le nostre funzioni cambiano a seconda delle scuole e delle specifiche situazioni interne delle classi in cui siamo implicate.

Nel lavoro a scuola con la disabilità, incontriamo un forte vissuto di solitudine di chi vi lavora e la difficoltà a dire, fuori da stereotipi, quali obiettivi perseguire e con quali competenze. Un quadro che ci sembra ancora più complesso nell’ambito della scuola dell’infanzia, in cui gli apprendimenti riguardano per di più la competenza a convivere entro un contesto sociale diverso dalla famiglia, secondo regole condivise che attengono la costruzioni di routine e ritmi, esplorazioni del mondo individuali e di gruppo, conoscenza del corpo, della sua cura e del uso nei contesti. Esistono linee guida, modelli e metodi con cui queste finalità generali vengono perseguite, ma la trasformazione in obiettivi specifici è frutto di una importante ridefinizione alla luce dei contesti in cui si lavora. Non sempre, purtroppo, sembra possibile utilizzare momenti condivisi entro l’equipe educante per poter pensare gli obiettivi generali fuori da stereotipi che guardano al bambino solo entro teorie lineari di sviluppo per tappe, ma piuttosto entro le peculiari dinamiche di rapporto che coinvolgono docenti, educatori, famiglie e bambini. In merito a questo, facciamo l’ipotesi che la formazione in psicologia possa aiutare a pensare lo sviluppo della funzione dell’OEPAC nel contesto della scuola dell’infanzia, presidiando la possibilità di dare senso a vissuti ed emozioni dei vari attori coinvolti, integrando l’intervento delle maestre nell’intervento con i bambini e entro il rapporto con le famiglie.

Resocontiamo, di seguito due esperienze in cui ci sembra che le competenze psicologiche sostengano la costruzione della funzione dell’OEPAC in rapporto a specifiche esigenze dei contesti in cui si interviene.

Una di noi, nel verificare l’orario di lavoro proposto dalla scuola, si chiede con quali criteri venga pensato. Da un lato sembra che l’OEPAC sia considerato necessario in alcuni momenti simbolizzati dalla scuola come oggettive occasioni di stimolo di “autonomia” e “coordinazione motoria” del bambino (es. cambio delle scarpe in entrata e in uscita, mangiare, etc.), dall’altro sembra che l’OEPAC debba essere necessariamente in copresenza con l’insegnante. Denaturalizzare queste presunte oggettività e routine ha consentito di ripensare con le insegnanti l’organizzazione del lavoro e dare voce ad un profondo vissuto di solitudine delle maestre, che sentono di dover controllare che i bambini non si facciano male entro il percorso di “autonomia” e di convivenza in classe. Preoccupazioni e tentativi di controllo si fanno più evidenti, poi, nel caso di bambini con disabilità. Poter parlare, mettere in parole questi vissuti relativi al rapporto con i bambini e condividere ipotesi sul rapporto tra questi e le finalità generali del mandato della scuola dell’infanzia hanno consentito al gruppo di lavoro di ripensare i criteri di organizzazione del lavoro, costruendo ancoraggi a specifici obiettivi educativi più che a generiche fantasie di controllo e autonomia.

In una scuola dell’infanzia, una di noi si occupa di un bambino di 4 anni a cui, da un anno, è stato diagnosticato un disturbo dello sviluppo con grave compromissione delle competenze linguistiche e comunicative. Le insegnanti, sollecitate dall’OEPAC, resocontano la fatica e la solitudine di trasformare le proprie impressioni sulle difficoltà del bambino in una proposta di valutazione alla famiglia, spaventata dall’eventualità di una diagnosi. Raccontano del lento processo con cui hanno cercato di guardare insieme ai genitori al funzionamento del bambino nel contesto scolastico e familiare, riconvenendo il senso della diagnosi come occasione per attivare risorse utili al bambino stesso. Il lavoro dell’OEPAC, dunque, non solo è stato attivato e facilitato da questa competenza delle insegnanti a curare il rapporto con le famiglie, ma a sua volta si connota come risorsa in rapporto alla quale maestre e famiglia possono ripensare e verificare i nuovi obiettivi educativi individuati a valle della diagnosi.

In conclusione, ci sembra che la funzione dell’OEPAC sia preziosa per il contesto della scuola dell’infanzia, in quanto estraneità competente attraverso cui pensare mandato della scuola e specifiche criticità; pensiamo, inoltre, che il ruolo di OEPAC possa essere utilmente interpretato alla luce di competenze psicologiche che sostengano i processi utili a dare senso al lavoro e a sostenere sviluppo.

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