In questo scritto, una paziente condivide alcune considerazioni nate nel lavoro di psicoterapia a cui partecipa. Un lavoro di psicoterapia che nasce come racconto costellato di fatti nostalgici e persecutori, violenti nel loro sembrare senza respiro, autoevidenti, fermi o, al più, capaci solo di attorcigliarsi su se stessi senza sviluppo. Il lavoro psicoterapeutico ha fin qui tentato di sottrarre eventi e vissuti alla fantasia di cronicizzare il passato in un perpetuo ripetersi di azioni. Perché oggi queste esperienze rivelino la propria forza di farsi simboli e, dunque, strumenti per riconoscere scelte e desideri, occasioni per occuparsi dei rapporti e dei loro sviluppi, in un dialogo affatto scontato tra pubblico e privato, tra famiglia e scuola, tra casa e lavoro al tempo del Coronavirus.
Federica Di Ruzza

di Seppia
Sono una paziente dello studio da qualche anno
Pensieri, lavoro, fatica e strada, oggi posso guardarli da qui e rintracciare alcuni nodi.
Nel corso del lavoro di psicoterapia i temi del corpo e della pelle sono stati più volte toccati, o comunque sono stati presenti nel sottofondo. Sono venuti fuori anche a proposito del mio lavoro di educatrice, nel rapporto con i bambini.
Ero piccola quando mi sono ustionata, ero una bambina. Ero in casa con mia madre e mio fratello più grande di me di pochi anni, due e mezzo per l’esattezza; mio padre era fuori a lavorare e con noi c’erano una vicina di casa e i suoi due bambini. Mentre mia madre e la vicina erano andate nell’altra stanza noi bambini giocavamo in salone. Ad un certo punto io e uno dei due compagni di gioco ci siamo allontanati e siamo andati in cucina. Sui fornelli c’era a bollire una pentola con l’acqua non so come ci sia venuta l’idea di aprire lo sportello del forno e sederci lì sopra, facendo così ribaltare la cucina che non era incassata, e facendo poi cadere l’acqua bollente tutta sui nostri corpi.
Così ci siamo segnati. La mia vita ha preso una strada dove quel corpo avrebbe parlato di molte cose. Se penso a quel giorno, a quel momento, credo che il mio corpo abbia iniziato a soffrire, a diventare un terreno di racconti, quasi un campo di battaglia. Fasciature, medici, dolore, ospedale, cicatrice. Una grandissima cicatrice che ricopre ancora la parte sinistra del mio fianco, sospesa per molto tempo nella possibilità di essere rimossa con un intervento chirurgico, eppure ancora qui.
Non l’ho mai voluta togliere. Attorno a quella cicatrice ruotano rapporti, la sofferenza di mia madre, che non ha potuto proteggermi, la mia paura, la paura di mio fratello, il ruolo di mio padre che girava attorno a questa storia, quasi esterno rispetto a noi che eravamo lì, ma chissà poi come davvero si sia sentito. Si sono riorganizzati assetti familiari, si è riorganizzato il ruolo della mia pelle, il modo in cui gli altri mi vedevano, le narrazioni di una storia familiare.
Non molto tempo fa in una seduta con la mia psicologa abbiamo messo a fuoco un elemento: una donna, che si è ustionata da bambina in un momento in cui un adulto non c’era, ha scelto di fare l’educatrice, di occuparsi di neonati, ha scelto un lavoro in cui il corpo di quei bambini è fortemente coinvolto e a lei è richiesta una grande affidabilità, è assegnata la grande responsabilità di occuparsi dei bambini e dei loro corpi nelle tante ore di scuola.
Nel mio lavoro non sono stata sempre così affidabile, mi sono ritrovata in più momenti ad agire una sorta di aggressività nei confronti dei bambini, in situazioni in cui il carico da gestire mi sembrava davvero tanto, bambini ostili, organizzazioni che non si facevano carico dello stress degli educatori, genitori che a volte sembrano mollare quel carico. Ho strattonato bambini, a volte ho stretto loro le braccia, a volte, quando dovevano dormire e non volevano, mi sono arrabbiata cullandoli con forza… quante cose passavano attraverso quel rapporto di corpi.
Non so ancora dove la messa a fuoco di questa connessione tra il vissuto di bambina bruciata e non protetta e quello di educatrice responsabile della cura di bambini, possa portare, quello che inizio a vedere è la possibilità di trovare significati utili all’interno della mia professione attraverso questo tipo di esperienza, significativa, traumatica, segnante, simbolica.
L’esperienza di quella ustione, di quella bambina, di questa adulta può parlarmi della forte ambiguità insita in ogni rapporto, di quanto questo abbia a che fare con famiglie, genitori, bambini, professione, scuola.
Nei contesti educativi spesso è forte la retorica dell’accogliere, dell’educatore che prende a sé i bambini e quasi miracolosamente può gestire tutto alla perfezione, fantasia che sta in piedi perché operatori e famiglie utenti sentono il peso, la fatica di occuparsi dei bambini.
Le scuole a volte sembrano promettere di poter togliere quel peso, di potersi sostituire alle famiglie, in un gioco in cui la fantasia di sostituirsi/essere sostituiti sostiene rapporti silenziosamente aggressivi, che parlano di potere più che di obiettivi educativi condivisi.
Credo che l’esperienza della mia ustione possa avere a che fare con il peso sentito da una madre, credo che quella esperienza così potente possa diventare uno strumento per comprendere il mio lavoro e le dinamiche che incontro nel rapporto tra famiglie e scuola. La sento utile a riconoscere la falsità della fantasia di sostituire/essere sostituiti che lega e fa fallire alcuni assetti del rapporto tra famiglie e scuola, sento che pelle e corpo mi aiutano a pensare i confini, le funzioni di cui mi occupo.
Forse non è un caso che questo scritto nasca in un momento storico come quello della quarantena dovuta alla pandemia di coronavirus. In questi giorni trascorsi in casa che mettono nel mio caso una specie di lente diversa ai discorsi che ruotano attorno al corpo, del contatto, del contagio, ma anche della possibilità di fare spazio, presidiare confini, prendersi cura e stare vicini anche a distanza. Inaspettatamente questo scritto nasce proprio in questi giorni che forse tendevo a tendo ancora a tratti ad immaginare desertici. Tenere al proprio lavoro da lontano mi sembra diverso dal tenerlo lontano, forse significa poterci pensare e scriverne proprio perché non c’è concretamente. Mi viene da pensare ad una sorta di passaggio dal paradigma educativo del “totalmente accogliente” in cui ci si può sentire incastrati e obbligati ad uno in cui si può tollerare la distanza e, in un certo senso, l’ambiguità. Un po’ come questi miei giorni che oscillano tra il partorire idee nuove e possibilità e un grande senso di vuoto e solitudine.
Un po’ come quella ustione sulla mia pelle, che segna la danza di distanza/vicinanza di una madre e una figlia e si fa strumento per verificare il lavoro.