Il tirocinio come occasione per pensare la professione. Una esperienza di assistenza specialistica

di Luciano Massimi

H. Rousseau, I giocatori di football, 1908 Olio su tela, cm 100,3 x 80,3. New York, Salomon R. Guggenheim Museum

Da diversi mesi lavoro come assistente specialistico presso un’associazione che promuove interventi educativi, terapeutici e di inserimento sociale attraverso un insieme di pratiche denominate “Green Care” che utilizzano risorse animali e agrarie sia in funzione terapeutica che come strumenti per interventi volti allo sviluppo delle autonomie dei destinatari. Lavoro con studenti che presentano disabilità o a cui è stata certificata una situazione di vulnerabilità e che, in accordo con la scuola e le famiglie, sono stati inseriti all’interno del progetto di “fattoria sociale” a cui partecipo. Lavoro quindi per la scuola ma al di fuori di essa, in un contesto esterno e con una ristretta categoria dei suoi studenti. All’interno del tirocinio post lauream che sto svolgendo presso un’associazione che si occupa di interventi nel terzo settore e con la chiusura delle scuole imposta dalle misure di contenimento del coronavirus e la conseguente riorganizzazione del mio lavoro, mi sono ritrovato a chiedermi dove si collocasse il mio ruolo rispetto alla scuola e con quale funzione fosse pensato.

Seppure con le dovute differenze regionali l’assistenza specialistica risponde principalmente a un mandato di integrazione e inclusione scolastica degli allievi in condizione di svantaggio. Già altri contributi hanno messo in evidenza le differenze tra il diritto all’inclusione e il paradigma dell’integrazione, così come le diverse competenze necessarie per intervenire a favore di una e dell’altra prospettiva. Guardiamo quindi all’integrazione e all’inclusione come due obiettivi che la scuola ha il compito di perseguire e all’assistenza specialistica come una delle funzioni pensate per raggiungerli. Nell’accogliere situazioni di svantaggio, la scuola ne ritaglia uno spazio specifico, incluso al suo interno ma non necessariamente integrato. È lo spazio costruito a partire dalla diagnosi funzionale di un alunno che permette di attivare una serie di risorse tra cui l’assistenza specialistica. Questo spazio può assumere forme diverse a seconda della prospettiva all’interno della quale viene pensato l’intervento. È importante tenerlo a mente perché dalla prospettiva adottata derivano la funzione dell’assistenza, i destinatari dell’intervento e, di fatto, gli obiettivi per cui si lavora. Lo spazio di intervento all’interno del quale si muove l’assistenza specialistica può essere pensato in funzione tanto dell’alunno quanto della scuola, se viene sviluppato a favore di una maggiore conoscenza e integrazione delle sue parti; altrimenti può essere rappresentato come esclusivo dell’alunno disabile e improntato unicamente al potenziamento delle sue abilità. Può essere collocato fuori dalla classe in aule adibite al sostegno, in attività laboratoriali pensate unicamente per gli utenti disabili, in una fattoria, ovvero in spazi e per mezzo di attività che, se pur facenti parte del contesto scolastico, non guardano a questo come potenziale beneficiario dell’intervento.

Ricordo che alcuni mesi fa, durante un incontro tra i genitori di un ragazzo disabile, l’equipe educativa e didattica dell’alunno e la psicologa referente del servizio sanitario locale (i cosiddetti GLHO), quest’ultima, al desiderio espresso dalla madre che il figlio potesse relazionarsi maggiormente con i propri coetanei, le rispose prontamente che non è la scuola il luogo idoneo in cui riporre questo genere di aspettative in quanto la sua funzione è principalmente didattica.

La prima questione che può essere utile porci è di cosa parliamo quando parliamo di scuola. E in questi mesi di lockdown se ne è parlato molto. La scuola è stata infatti la prima organizzazione a cui sono state imposte le misure di protezione e, nel loro rispetto, è andata incontro a un’importante trasformazione. Nel momento in cui la scuola si è riorganizzata attraverso dei nuovi canali che hanno implicato la creazione di un nuovo setting, l’inedita distanza fisica che questo setting comporta sembra aver aperto un dibattito sulla centralità delle relazioni all’interno del contesto scolastico e sulla scuola come laboratorio di socialità. L’urgente richiamo a un mandato di socializzazione conferito alla scuola è una questione che non circoscriverei però all’attualità degli importanti cambiamenti in atto nel servizio scolastico e aspetterei a simbolizzare questi cambiamenti come una minaccia a tale mandato, bensì possono anche rappresentare un’occasione per la scuola di pensare tanto i rapporti in cui è implicata quanto il senso della propria funzione. Nella crisi rintracciamo la possibilità di ripensare i rapporti secondo nuovi limiti temporali e spaziali, di individuarne le criticità, di pensare la propria funzione a partire da diversi paradigmi. Ho trovato interessante come all’interno del gruppo di lavoro di cui faccio parte, una volta venuto a mancare quel setting abituale che vedeva coinvolti principalmente gli assistenti e il gruppo di utenti destinatari dell’intervento, stiano emergendo maggiormente questioni riguardanti la relazione con le famiglie degli utenti, i rapporti dell’alunno con il gruppo classe, l’organizzazione della scuola in rapporto alla disabilità come dimensioni su cui stiamo sentendo la necessità di costruire un pensiero. Nel dover riorganizzare il nostro ruolo all’interno della didattica online, in una dimensione che sembra mettere in crisi la nostra funzione di assistenti specialistici, a cui non è richiesto il possesso di particolari competenze didattiche, sta venendo fuori la necessità di trattare una domanda che non concerne l’utente in quanto individuo isolato bensì il più ampio tessuto all’interno del quale è inserito. Il recupero di questa funzione passa per il recupero della competenza a trattare e organizzare le relazioni all’interno di un contesto.

Se intendiamo la scuola unicamente come luogo di apprendimento di un sapere didattico e la sua funzione come circoscritta al raggiungimento di obiettivi didattici e formativi da parte dell’alunno, lavorare con la disabilità o in generale con situazioni di svantaggio si ridurrà a rendere questi obiettivi alla portata di ogni suo studente attraverso la personalizzazione del piano didattico e il giusto accompagnamento all’apprendimento. Se ci muoviamo all’interno di una cultura performativa possiamo immaginare che l’intervento sarà circoscritto al disabile e la funzione dell’assistente specialistico sarà di affiancamento a quella di altre figure professionali nell’intervenire sugli aspetti deficitari dell’alunno in vista di una migliore performance per quanto riguarda l’apprendimento, l’asse cognitivo, le autonomie, la comunicazione, l’area affettivo relazionale. La prestazione del singolo verrà posta come il maggiore criterio di orientamento per l’intervento e alla fine dell’anno scolastico sarà possibile tirare le somme sui risultati raggiunti o meno rispetto agli obiettivi previsti dal piano individualizzato dell’alunno. La funzione dell’assistente specialistico poco aggiungerà a quella di altre figure che già intervengono in favore dell’allievo. Si avranno studenti più “capaci” all’interno di contesti che possono essere inclusivi ma non necessariamente integranti, le cui specificità potranno essere considerate scontatamente esterne all’intervento e di conseguenza venire escluse dal suo campo.

Pensiamo agli studenti che non presentano disabilità o che non richiedono la pianificazione di interventi personalizzati, possono essere considerati una risorsa all’interno del processo di integrazione? E l’alunno disabile può rappresentare una risorsa per gli altri studenti e per il più ampio contesto scolastico? 

Il richiamo a un mandato di socializzazione della scuola sembra rimandare a una funzione che possiamo chiamare di apprendimento alla convivenza, che non si limita al raggiungimento di una condizione di inclusione ma che implica un processo dinamico di integrazione tra le diverse parti che ne sono incluse. All’interno di questa funzione l’assistenza specialistica può trovare il proprio spazio d’intervento se si porrà in discontinuità con un sistema individualistico che tende a trattare come problema del singolo le domande riguardanti il contesto.

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