‘Tradurre in parole’ è spesso immaginato come un obiettivo metodologico dell’intervento psicologico e psicoterapeutico. Quando però si perde il senso simbolico e, dunque, profondamente relazionale del discorso che si riconosce e si costruisce nella relazione psicoterapeutica, la parola viene trattata come un fatto e il produrla come una tecnica capace di per sé di generare svolte, abreazioni, catarsi. ‘Dire’ diventa l’obiettivo e la parola una formula magica, un rito, una pratica esoterica a cui essere iniziati, un esorcismo a cui essere sottoposti, una occasione per spiegare ed evidenze con cui dimostrare.
L’autrice scrive di alcuni passaggi della propria psicoterapia in corso, apparentemente sovrapponendola ad un corso di scrittura. Scrivere sembra essere la stessa cosa in quanto “roba di parole”. Eppure entrambi i contesti le rimandano dell’impossibilità di ripetere rapporti, del falso che si rischia attraverso le scorciatoie che la fantasia di ripetere sembra promettere.
Sapere di eventi traumatici, dirli, metterli in parole non basta a capire cosa siano e cosa possano essere, come agglomerino senso e perché si insinuino come significanti nel presente. Il falso della convinzione che la psicoterapia sia orientata a svelare eventi possibilmente traumatici è in rapporto con la fatica di produrre creativamente ipotesi di speranza e sviluppo per il futuro.
Se in Collo 1 è stato possibile declinare il senso di scrivere come tentativo di riconoscere connessioni qui si riconosce il rischio di risolvere gli eventi in fatti e l’intervento nel nominarli attraverso l’esibizione che il raccontare può consentire. Così la necessità di distinguere eventi, parole, tempi, prospettive dello scrivere e della parola diviene isomorfico alla necessità di distinguere esperienze passate e presenti perché non confondano il futuro, perché tessere i fili della propria storia non sia un’azione di intrattenimento con cui difendersi dalla vita, perché riflettere e guardarsi non si risolva nella condanna di Narciso alla rinuncia al rapporto con il mondo nel tempo.
Federica Di Ruzza

di Pandora
Cara Federica,
davvero, non ci sto capendo molto. Tu dici che va bene. Io non ne sono così sicura. Volevo scrivere Collo 2, ma alla scuola di scrittura un docente ci ha detto che non si può scrivere in forma autobiografica se prima non si è compresa la materia che si intende trattare, se non si è in grado di osservarla con un minimo di distanza. E io come faccio a scriverne se ci sto dentro fino al collo. Ecco ci sto dentro fino a “quello”. Sempre lui sì, il collo.
In questo momento sono in un bar di una città di frontiera, poco importa quale, quello che conta è che è di frontiera, cioè sta al confine, cioè sta dove sto io: sulla linea tra mio cuore e la mia testa. In questo bar ci vengono anche veri scrittori a scrivere libri veri, dico libri importanti. Mi sono detta magari aiuta, magari no. Provo. Alla peggio mi sono presa un buon caffè e due pasticcini in un luogo incantevole.
Ma veniamo al punto. Il punto è che non ho modo di arrivarci al punto. Ho solo dei pezzi.
Ecco, ora ti faccio l’elenco, me li sono scritti mentre ero in treno stamattina:
- Il collo (il mio e tutti gli altri)
- Modigliani
- La tela di Penelope
- Parole/capelli/fili
- La stanza del padre di A.
- Il nome del padre di A.
- La ripetizione
E come le metti insieme queste cose? E se dovessi scriverci un breve racconto, il lettore lo leggerebbe fino in fondo se nemmeno io so dove andare a parare?
Intanto ti aggiorno: in queste settimane i dolori al collo sono quasi scomparsi. Le parole tutte bagnate di lacrime che sono uscite dalla mia gola, si insomma quelle che erano come capelli, le ho messe ad asciugare e le ho guardate a lungo. A forza di guardarle si sono trasformate, niente più capelli, ma fili, buoni per essere tessuti. Dico, magari ne esce fuori qualcosa di bello, come un bel quadro. E nei quadri mi sono imbattuta.
Un mese fa ero a Livorno a rintracciare luoghi della mia infanzia e c’era una mostra su Modigliani. Ovviamente la gente era tutta accalcata intorno a quelli più belli o almeno più famosi: le donne dal collo lungo. Giuro, mentre le guardavo mica ci ho pensato al mio collo e nemmeno a dove avevo già visto quelle immagini. Così sono passate settimane. Fino a che, due mattine fa una mia amica mi manda una foto di tulipani bianchi. Me la manda perché sa che mi piacciono molto. Quello che non sa è che l’ultimo mazzo di tulipani bianchi che è passato tra le mie mani è il mazzo che posai sulla tomba di mio padre, ed erano fiori che mia madre voleva che io lasciassi
lì, come ultimo saluto al padre dei suoi figli, all’ unico grande amore della sua vita. Poi non ne ho più comprati e sono trascorsi 12 anni. L’età di mia figlia. Perché succede di questo, succede che la vita e la morte si sfiorino, magari di poco, giusto il tempo di guardarsi negli occhi con desiderio, con nostalgia, con quel non so che. Quello sguardo, tra la vita e la morte, lo immagino esattamente come quello che Rutger Hauer e Michelle Pfeiffer si scambiano in Lady Hawke, all’alba o al tramonto, cioè sulla linea di confine tra il giorno e la notte. Poi basta, poi uno torna ad essere lupo, oppure l’altro torna ad essere falco. Su quella linea di confine ci sono stata, mentre guardavo gli occhi di mia figlia nata da poco e stringevo la mano di mio padre che moriva. Avrei dovuto essere felice o disperata?
Aspetta un attimo, il punto non sono i tulipani in primo piano nella foto. Il punto è lo sfondo. Dietro al mazzo di tulipani bianchi, si vedeva una parete, e sulla parete erano appesi due quadri e sulla tela di quei quadri erano riprodotti due dipinti di Modigliani, due donne dal collo lungo.
E’ stato in quel momento che ho incollato il mio collo a quei colli.
Tu dirai – a questo punto hai capito? – No, non ho capito, ho solo ed esclusivamente aggiunto al mio elenco la voce “Modigliani”.
Il giorno dopo ero da te con il mio gomitolo di filo di parole e seduta comodamente sulla poltrona del tuo studio, tessevo fili di parole. Tessevo e poi smontavo, e poi ritessevo e poi smontavo. Tu mi hai detto che sembravo Penelope. Punto.
Ho smesso di sferruzzare e ho deposto i ferri del mestiere di tessitrice con la stessa solennità con la quale si depongono le armi. Non hanno fatto rumore più di tanto.
Ed è calato il silenzio.
Ho detto – Non ci sto capendo niente-
Tu hai detto – Va bene così – Lo vedi? Arranco nel buio, non c’è un filo logico. E io come ce lo porto con me uno che vorrebbe semplicemente leggere un buon racconto?
Aspetta, non è finita, devo dirti quando e perché ho aggiunto alla lista i punti 4 e 5.
Due giorni dopo la seduta da te, mentre salivo sul treno per andare verso la città di frontiera, all’ improvviso mi spunta un ricordo, così, senza preavviso, pop up. Ecco dove avevo già visto quel quadro, quel Modigliani, quella donna dal collo lungo: era in quella casa il cui odore mi dava la nausea. Come posso averla dimenticata quella casa e quel quadro.
Era la casa del padre di A. la mia amichetta di infanzia. La casa del padre di A. era piena di quadri, perlopiù inquietanti e neanche poco, li detestavo. Ma ce n’era uno che trovavo curioso e che guardavo con interesse, nonostante i miei 8/9/10? anni. Era una riproduzione di un quadro di Modigliani, una donna dal collo lungo, e già allora mi domandavo: chissà perché.
Perché le dipingeva con il collo lungo? Mi sembrava, all’ epoca e con i miei occhi di bambina, un lungo ponte che univa due sponde. E mi faceva un po’ tristezza quella donna.
Ma veniamo al punto Federica, sennò qui ci perdiamo.
Il punto è che in quella casa, vicino a quel quadro, con quel padre di A. è accaduto ciò che non sarebbe mai dovuto accadere. Lo devo dire? C’è bisogno di scriverlo? Non si capisce se non lo nomino? Lo devo nominare
perché altrimenti non me ne posso liberare? Me ne devo liberare e ne devo fare parole, capelli, filo buono per tessere?
Dimmelo tu. Io non lo so. So che sono davvero molto molto arrabbiata.
Con almeno due persone.
La prima, come puoi immaginare, è il padre di A. La seconda sono io.
Ora ti dico come sono andate le cose. Non eravamo nella stanza da letto. Eravamo nel suo studio, dove c’era la TV. Inizialmente l’atmosfera era normale. Lo so che “normale” non è un termine buono da usare se dovessi scriverci un racconto, perché poi di normale non c’è nulla a questo mondo, ma per i miei 8/9/10 anni di allora “normale” aveva un significato chiarissimo, normale era un modo per dire “tutto come al solito”. Questo mi rendeva serena: la solita amica nella solita casa con il solito cane che correva in mezzo ai piedi illuminato dalla solita luce tra le solite voci sul solito divano a guardare il solito programma in tv. A partire dal divano tutto diventa anormale. Perché io e la mia amica di solito quel programma ce lo guardavamo sedute vicine vicine. E invece succede che il padre di A. si piazza in mezzo a noi due. Mio nonno lo detestava questo tizio, lo chiamava “il mangia a scrocco” perché cercava sempre di rimediare inviti a pranzi e cene, perché era uno tirchio così tirchio che risparmiava su tutto pure su una colazione e arraffava dove poteva come poteva. Ma il punto non è il livello dell’essere tirchio. Il punto è: il padre di A. che si piazza sul divano e
si piazza in mezzo a noi due. E appoggia le sue braccia sulle nostre spalle, a me capita il braccio sinistro, la sua mano sinistra sulla mia spalla sinistra.
Forse all’ inizio è stato solo questo. Volevo il mio “solito” con pop corn e cagnolino che saltella ovunque. Avrei dovuto mettere “tutto il mio solito” con il braccio sinistro del padre di A.? No.
Federica, io non l’ho voluto mettere insieme, ed è stato un attimo: sono saltata a piè pari dalla dissonanza cognitiva alla deformazione, astrazione, separazione, sparizione, buconerazione. Aspetta, aspetta un attimo, sto mentendo su una cosa. Non è stato poi così veloce il salto.
Lo ha detto pure il docente alla scuola di scrittura, guarda che il lettore se ne accorge subito se non sei onesto. Ha detto pure, basta dire le cose, quello che vedi. Quindi ora lo faccio, ti descrivo i fatti prima del salto nel buco nero. Credo abbia iniziato ad accarezzarmi la spalla, credo di essermi domandata se fosse normale. Forse lo era. Forse avrebbe potuto esserlo, se non fosse stato che quella mano non era normale, manaccia viscida unta umidiccia molliccia che è scesa più giù del livello spalla.
Federica, sono andata completamente in tilt. Come accadeva ai flipper degli anni ’70 e la pallina andava a sbattere velocissimamente ovunque e non riuscivi più a seguirne la traiettoria e non potevi far altro che inseguirla con gli occhi sperando di rintracciarne la corsa prima che quella si dirigesse e precipitasse grazie al piano inclinato inevitabilmente verso la peggiore delle
conclusioni. Lì, tra le alette, in buca, gola.
Gola.
Questa non ci voleva. Ho sbagliato, volevo semplicemente scrivere “goal”.
Lo possiamo liquidare velocemente questo errore inserendolo nella categoria degli errori di battitura? Comodo comodo, ma. Ora penso che “gola” mi riporta dritta dritta, con il rapido delle 15.50 alla Stazione Collo.
Ok, manteniamo la calma e veniamo al punto. Il punto è che il padre di A. scese giù, dove sotto ci stava il mio cuore che batteva all’impazzata e al contrario della mia testa che cercava di controllare il movimento della pallina impazzita, lui (il mio cuore) aveva chiarissima la situazione, aveva paura, e soprattutto urlava come un allenatore ai suoi allievi in posizione ai
blocchi di partenza, urlava sicuro – deciso – fermo e urlava a me urlava proprio a me, urlava alzati e scappa, subito, ora, immediatamente, scatta, parti e corri cazzo corri vattene via adesso che fai in tempo.
E invece no, sono sprofondata nel divano.
E nella mia testa lo vedevo il percorso che dovevo fare: divano – porta – ingresso – altra porta – pianerottolo – campanello di casa mia – mamma mia papà mio fratello mio gatto mio stanza mia.
Federica, questo percorso era fatto di pochi metri, ma per favore guardalo da questo lato, da questa prospettiva, dietro alla lente deformante, che lo allunga, lo stira, e diventa un percorso lungo lungo lungo.
Lungo come un collo lungo, come il collo lungo della donna dal collo lungo di Modigliani.
Il resto lo puoi immaginare. Sono rimasta lì immobile. Ferma più ferma che ho potuto, ferma come il cervo che ha catturato il suono del passo di un cacciatore tra gli alberi, in allerta, e per un istante sospende ogni minimo movimento muscolare. Così ho creduto di aver trovato il modo per non partecipare al banchetto che il padre di A. si apprestava a consumare a scrocco.
Io non c’ero. Ho staccato.
La testa dal cuore, il cuore dal corpo, il mio corpo dal corpo di lui, e lui dalla casa, e la casa dal palazzo e il palazzo dalla città. In tutto questo devo aver staccato Raffaella Carrà dallo schermo e ho staccato pure l’audio perché io non sentivo nulla davvero. Niente di niente.
No, non ho idea di quanto tempo sia passato. Non ho idea se lo fece solo con me o pure con sua figlia. So due cose, la prima è che non tornai mai più in quella casa, la seconda è che mi appropriai di due nuove parole delle quali fino ad allora non capivo bene il senso: Odio e Solitudine.
Odio nemmeno te lo spiego, si capisce no? Invece Solitudine va spiegata: non perché all’epoca io fossi davvero da sola, ma perché a quelle persone intorno a me alle quali avrei potuto accedere, non arrivai mai. Lontana da tutti, visibili e irraggiungibili. La voce mi è rimasta incastonata tra una vertebra e l’altra, spalmata sui tendini, impastata nei muscoli del baratro
buio e segreto del mio collo allungato a dismisura.
Le parole non hanno viaggiato verso nessun orecchio.
Ecco, l’ho detto.
Ora l’ho detto al tuo di orecchio.
Federica, ormai sono due ore che sto in questo bar della città di confine e mi sta prendendo quel fastidio alla base del cranio, come una pressione insistente, e quel suono da canale non sintonizzato alla radio, la testa che galleggia, esattamente come tutte le volte che poi alla fine, stacco.
E svengo.