Le suggestioni di una psicoterapia nelle parole di una paziente. Collo 1 è un primo tentativo di fare sintesi, di trasformare in significative ricorsività una storia apparentemente infinita, che fa della ripetizione una tecnica di sopravvivenza. Impegnata a farsi cliente di una funzione integrativa, Pandora – questo il suo pseudonimo – nomina ponti tra mente e corpo, tra passato e futuro, percorrendo luoghi comuni, solitudini, possibili condivisioni utili ad emancipare la propria storia da copioni.
Federica Di Ruzza

di Pandora
Cara Federica, non avevo tenuto conto di un particolare. Gli orecchini. Li avevo comprati qualche anno fa e indossati pochissimo, non so nemmeno io perché. Ma so perché li avevo comprati: uno aveva cervello, l’altro cuore. E mi sembrava che fosse tutto lì. Il percorso di una vita intera, appesa tra l’uno e l’altro, un’infinita strada per metterli insieme o almeno vicini.
Ma non e’ servito a molto indossarli l’altro giorno, pare, perche’ ho fatto una gran fatica a rintracciare una qualche emozione, il cuore della questione, il sentimento sul fondo. Ero tutta cervello.
Ci ho provato nella vita, e a tratti ci sono riuscita, ma nei momenti peggiori per non morire travolta dagli tsunami di angoscia e dalle troppe emozioni, lo ammetto, ho dovuto mettere in moto parecchio cervello. Ho preferito controllare e sopravvivere che vivere con il perenne dubbio di morire o impazzire.
Lo so che non e’ uguale. Sono cambiate molte cose nel frattempo, sono cambiate talmente tanto che il mio muro di controllo non e’ piu’ una protezione, e’ solo un impedimento, e’ cio’ che mi separa dal resto della mia vita e sono stanca di sopravvivere barricata.
Avevo gli orecchini cuore/cervello quel giorno e ho provato ad abbandonarmi durante la seduta a studio da te, ma era impossibile. La struttura edificata in decenni intorno alla gola sembrava un blocco unico chiamato collo, solido, un muro di Berlino a protezione di non so che, mentre folle di persone da sopra e da sotto picconavano per passare oltre.
Sono sul punto di, al limite del, in procinto per. Cosi’ mi sento.
La gola, il collo, le vertebre della cervicale. Mi sento tutta li’. E’ il mio personale luogo dell’incontro con me stessa. Sono settimane che si svolge una rivoluzione da quelle parti: contratture, dolori, rumori, mal di gola e colpi di tosse, pressioni, compressioni e di conseguenza fischi alle orecchie, giramenti di testa, fino al collasso. A terra come una pera cotta, tre secondi di pace, di tabula rasa, di silenzio.
Solo che nella caduta ho sbattuto malamente e il dolore e la pressione e le contratture muscolari non hanno fatto altro che aumentare. E io sto sempre lì con le mani a massaggiare, a roteare collo e testa in ascolto degli scricchiolii inquietanti che ne escono fuori, sembra che io non abbia mai mosso il collo in vita mia a giudicare da questa colonna sonora da film dell’orrore.
Povero collo, ci vorrebbe una carezza. Quanta fatica a tenerli collegati, cuore e cervello, a coordinare come poteva due sistemi complicati come i miei. Povero collo, mi viene da dire, quante ne ha passate.
La storia del mio collo comincia prima che io nascessi. Non la ricordo ma me l’hanno raccontata. Non la ricordo con la testa, ma il mio corpo ne ha memoria e me la restituisce di continuo, non sia mai dovessi dimenticarla.
Dice che i nove mesi erano lì lì per scadere e che io ho iniziato a fare un po’ di capriole nella sua pancia e quindi lei è andata di corsa al Salvator Mundi, per partorire. Dice che poi devo aver cambiato idea, ho fatto marcia indietro e non ne ho voluto sapere di uscire di lì. Dice che allora è tornata a casa.
Ma il giorno dopo sì, è corsa di nuovo in ospedale ed era un giorno di novembre a Roma, secondo me il cielo era grigio e l’aria umida, sicuramente pioveva. Dice che a forza di far capriole, di andare avanti e indietro tutto quel tempo, probabilmente ho esagerato e il cordone ha fatto un sacco di giri intorno al collo e che quando sono uscita ero mezza morta. Mezza pero’, non tutta tutta.
Io non lo so, ma ogni volta che nella vita devo fare un cambiamento importante, decidere e poi girare una boa, penso sempre che sto per morire, che non ce la posso fare, che non sopravviverò.
Federica, te l’ho mai raccontato della prima volta che sono svenuta?
La prima volta che il collo si e’ fatto vivo avevo otto anni. Lieve fastidio alla base del cranio e poi il buio. Spina staccata. Ero in ambulatorio per il vaccino contro il vaiolo. Ed ero tranquilla, a me almeno pareva cosi’, o forse no perché di fatto ho collassato. Mi hanno fatto duemila controlli, chiedevano a mia madre “Ma ha mangiato la bambina? Soffre di qualcosa? Il cuore e’ a posto?”.
Mano nella mano con mia madre, tornando verso casa, arriva la diagnosi: “Tesoro, stai tranquilla, non hai nessuna malattia, sei solo troppo emotiva”.
Troppo emotiva. Emotiva. Ma che significa?
Non ho avuto il coraggio di chiederlo, ma la risposta l’ho cercata per tutta la mia vita, tra i libri, all’ università, tra le pieghe della vita vissuta, nei rapporti, negli studi di diversi psicoterapeuti. Sono diventata un’esperta. Le emozioni sono il mio mestiere.
Collo. Accollarsi. Scollarsi. Incollarsi. Torcicollo. Anche collare. Anche collana.
Per anni non ho potuto indossare collanine, mettere sciarpe o foulard, maglioni a collo alto, nulla che stringesse o coprisse il mio collo. Mi sentivo in trappola, soffocata, impiccata, soprattutto strangolata.
Sul collo mi venne anche un herpes zoster mostruoso, mentre all’interno del collo esplodevano ciclicamente tonsilliti, ma di gola, placche, infezioni e infiammazioni di ogni tipo.
Pero’ ad un certo punto le cose andavano meglio, davvero. E’ stato quando ho iniziato a raccontare la mia vita. Le parole erano mattoncini che costruivano ponti tra il mio cuore e il mio cervello e mettevano a tacere le malattie e i dolori.
Per questo l’altro giorno, con i miei orecchini appesi ai lobi, cercavo parole per dire le cose che non so di me. Ne avevo tante, troppe, ma era chiaro: scendevano a cascata dal cervello e io le sputavo dalla bocca, mi uscivano come fili, come capelli, ed erano talmente tanti che hanno intasato il passaggio, un grumo di capelli ha intoppato la gola.
Allora ho fatto come mi hai detto tu, ho chiuso gli occhi.
Ho calato il sipario, ho spento le luci sulla scena, mi sono inginocchiata pregando e sperando di non collassare ancora una volta. E ho cominciato a togliere il grumo di capelli dalla gola.
Nessuna parola. Zero. Solo acqua salata. Ho pianto per un’ora consecutiva.
Piangendo fluttuavo. Uno spazio virtuale, dove per un po’ cuore e cervello si sono collegati, uno spazio di memorie, emozioni, immagini, pensieri, uno spazio multidimensionale dove le vecchie coordinate non valevano più, uno spazio reale dove l’unica cosa che contava era – non sono sola qui, non sono sola –
Sto. Sospesa.
Ora le mani corrono al collo, sulla gola, poi svoltano l’angolo e si fermano sull’Atlante. Sento lo sforzo disumano del sostegno di un intero pianeta sulle sue braccia. Sono stanca, non ce la faccio più. Ora lo mollo, tanto ci deve essere l’epistrofeo comunque. Se mollo, non mi si stacca la testa. Me lo ripeto, ce la posso fare, non morirò.
Le parole che escono dopo il fiume di lacrime sono sempre fili. Ma non intoppano. Sono fatti di altra materia. Forse inchiostro. Prendono forme strane, le guardo queste parole, le ascolto ma non le so spiegare, le capisco ma non so dove vogliono andare. Cuciono pezzetti vita, un pezzetto del passato con un pezzeto del presente, legano morbidamente un lembo del mio cuore al cervello, si dissolvono alcune e non le ritrovo piu’ per giorni interi, altre diventano grandi che sembrano segnaletiche che mi indicano la direzione, altre fluttuano fluttuano fluttuano. Stanno li’ sospese e si lasciano guardare.
Qualche parola l’ho presa e l’ho messa in tasca, cosi’ ci ficco la mano dentro ogni tanto, le tocco e mi rassicuro. Di cosa poi, non so, ma mi rassicuro.
Per esempio adesso, proprio adesso in tasca ne ho tre e non sono tutte mie, un po’ appartengono a me e un po’ a te Federica. Le voglio anche prestare a qualcuno se me le dovesse chiedere, tanto non si sciupano.
Una è Sognare, l’altra è Sperare. E poi ci sta pure Futuro.
Non so ancora cosa farne, a quali altre parole collegarle. Mi piacerebbe usarle per farne un racconto.
Del racconto ho solo il titolo in mente, si chiamera’ Collo 1.
1 perche’ cosi’ penso che poi scrivero’ il 2 e poi forse il 3. Non lo so, forse.
Grazie Federica, ti abbraccio. Alla prossima settimana.
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