Spesso pazienti e psicoterapeuti colludono sulla fantasia che l’analisi sia un non-contesto in cui “pensare la vita”, una vita che sta fuori, prima e dopo. Una vita impensabile se si presentifica nel setting o, peggio ancora, nell’immagine dell’analista. Eppure la psicoterapia è una esperienza relazionale che partecipa della vita in rapporto affatto scontato con le altre relazioni e con gli altri contesti, tanto che, a volte, quello che secondo criteri canonici e ortodossi potrebbe apparire un’imperdonabile crepa nella blindatura del setting psicoanalitico, in altre occasioni permette viraggi inattesi e increspature della realtà si fanno evento, analyseur, sintesi simbolica dello stesso lavoro psicoanalitico.
Federica Di Ruzza

Fondazione Solomon R. Guggenheim, Collezione Hannelore B. e Rudolph B. Schulhof
di Riccardo Silenzio
Sono sdraiato sul lettino e i rumori fuori dalla stanza mi distraggono. I clacson, l’ascensore, qualcuno con la spesa che sale le scale sbuffando, uno sciacquone, gli aerei che volano sopra Roma… durante i tre anni della mia terapia ho sentito di tutto. Eppure ancora non riesco a evitare di rifugiarmi in questi rumori. Sono sempre delle vie di fuga eccezionali dai pensieri faticosi che affrontiamo durante le sedute. Oggi però è diverso. Oggi un bambino piange a squarciagola. Possibile che nessuno vada a vedere cosa ha?
Un temporale sta occupando il cielo e oscura la luce della stanza. Ogni minimo silenzio che c’è tra me e la terapeuta viene riempito dallo scoppio dei tuoni che fanno vibrare i vetri della finestra e dal pianto del bambino. L’atmosfera è da film dell’orrore e la mia mente scappa. Penso che la mia mente faccia bene a scappare. Penso al bambino, vedo una culla e lui che piange all’interno. I tuoni e i lampi riempiono anche la sua stanza. Poi, per fortuna, vengo riportato sul lavoro che stiamo facendo: ― A cosa pensi? ― mi chiede la terapeuta.
La seduta successiva ha tutte altre premesse. Mentre raggiungo il citofono c’è un sole luminoso che mi scalda la testa e penso: molto meglio così. Ma ho dimenticato il bambino e lui, appena mi sdraio sul lettino, si fa sentire subito. ― Aiuto! Sono solo! ― mi sembra dica con i suoi urli. ― Qualcuno venga a salvarmi. ― Anche oggi, nonostante il sole, non riesco a stare concentrato. Il pianto non smette, è invadente, richiede attenzione. La mia ce l’hai, penso. Possibile che nessuno vada da lui? Possibile che venga lasciato solo?
Alla fine della seduta sono confuso. Esco dalla porta durante un raro momento di silenzio. Forse si è addormentato. Poi, mentre mi giro per salutare la terapeuta ecco che il bambino ricomincia a piangere.
― Certo che ’sto bambino! ― dico infastidito allargando le braccia.
Lei sorride.
― A mercoledì prossimo ― la saluto.
― A mercoledì, ― risponde lei.
Il pianto mi arriva forte e deciso alle orecchie. Poi, appena la porta dello studio si chiude, il suono diventa attutito, ovattato. Mi rendo conto che il suono proveniva dall’interno della casa in cui ho appena fatto la seduta. Possibile che…? Eppure è così ovvio, la mia terapeuta ha da poco avuto un figlio. Come ho potuto non fare un semplice due più due? Per un attimo penso di suonare il campanello. Vorrei dirle che non avevo capito chi fosse. Però mi sembra così inopportuno. Vado via, mentre in testa scalpitano pensieri e senso di colpa: il bambino ha pianto tutta la seduta. Mentre io mi rigiravo nei miei problemi la madre era con me invece di andare da lui. Che razza di seduta è stata? Ne è valsa la pena? Ma cosa può valere il pianto di un’ora di un neonato? Di certo la sua sofferenza, espressa in modo così netto, sembra più importante di ogni parola che posso aver detto.
Scrivo un messaggio: Scusa, non avevo mica capito. Io pensavo “possibile che nessuno va a vedere perché piange?” E invece eri tu che non andavi perché stavamo facendo un lavoro insieme. Sta sopportando pure lui la solitudine per aiutarmi e neanche lo sa.
Poco dopo arriva la risposta: Quante suggestioni per mercoledì prossimo…
Già. La mia testa è in subbuglio e impiega un lungo tragitto in macchina prima di riuscire a mettere a riposo la questione.
All’incontro successivo in stanza siamo tre: la terapeuta, io e il pianto. Mi chiedo cosa verrà fuori. Le urla a squarciagola del bambino non sono più una distrazione e una via di fuga. Hanno acquistato peso e influenzano la traiettoria di tutta la seduta. È un pianto che ha perso l’etichetta di rumore ambientale ed è diventato meno generico: da Un pianto ora è diventato Il pianto. Potremmo portare il bambino a stare vicino a noi, perché tanto vale a questo punto averlo nello stesso ambiente, perché saperlo da solo che piange in un’altra stanza è qualcosa che non mi permette di stare sul lavoro che portiamo avanti. Sono tentato di chiedere alla terapeuta se vuole andare da lui, ma è una domanda troppo personale, privata, mi sembra fuori luogo. Chiedo: ― Avrà bisogno di qualcosa? ― e subito la frase mi torna indietro.
― Di cosa pensi abbia bisogno?
Siamo rimasti nella terapia. Questo mi fa piacere, ma farà piacere anche al bambino?
― Penso che abbia bisogno di qualcuno.
― Perché?
― Perché è solo.
― Chi ti dice che non ci sia qualcuno con lui?
L’idea mi stordisce. La presenza di qualcun altro non l’avevo mai considerata. Parlando, quello che per me era una disperata richiesta d’aiuto, si trasforma in altre possibilità. Fame, forse, oppure sonno. Una richiesta diversa, espressa nell’unica lingua a sua disposizione e rivolta forse a qualcuno che è lì con lui. In tre settimane non ho mai pensato niente del genere, come è possibile? Per me era solo. Nient’altro.
― Perché lo immaginavo da solo?
È questa la domanda a cui vorrei rispondere. Ma se anche non ci riuscissi mi accorgo che la domanda è al passato. Mi sembra molto importante, forse più importante: cause e origini possono aspettare. Accogliere l’idea che “Potrebbe esserci qualcuno con lui”, sentirla possibile, non necessariamente vera, solo possibile, apre porte anche nella mia solitudine.
Spesso mi sono sentito solo in questi anni, mi sono sentito solo a casa, a lavoro, anche nella terapia. E se adesso mi chiedo: ― Sono solo? ― ho un’altra possibilità da mettere sul tavolo. Non ho la certezza che sia vera, ma adesso sembra così probabile. Ci penso e ci ripenso. Forse qualcuno c’è.
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