Pensare il tirocinio. La fatica di scegliere

Bruno Munari, Forchette, 1958

di Veronica Schiavello

Da circa un anno sono laureata in psicologia clinica. Sto svolgendo il mio tirocinio post lauream presso una associazione culturale di Roma. Sentivo un forte richiamo ad assolvere semplicemente un obbligo istituzionale e a togliermi di mezzo questo impiccio del tirocinio, ma sentivo ancor di più il bisogno di dare senso e rendere fruttuoso questo particolare momento formativo, così come avevo fatto con il percorso universitario e il percorso di tesi. Alcuni colloqui mi lasciavano svuotata, mi facevano pensare che il tirocinante sarebbe stato un tappabuchi tuttofare, mentre totalmente diversa è stata la sensazione provata nei colloqui in cui ho sentito che la funzione del tirocinante non fosse data e svilita, ma pensata e costruita nel percorso. Mi sentivo approdata, dopo tanta fatica, nel posto che avevo cercato.

Eppure, una volta firmato il progetto formativo e cominciato il tirocinio, l’atteggiamento nei confronti della mia tutor e dei progetti in cui venivo coinvolta era:” ditemi quello che devo fare; insegnatemi come si fa e lo farò precisamente allo stesso modo”.  Sacrosante sono state le riunioni dei tirocini: ricostruire insieme il senso delle funzioni che ricoprivamo nei diversi progetti in cui eravamo coinvolti mi ha permesso di sentirmi in diritto e in dovere di metterci del mio, di ritrovare quella voglia di costruirmi un’identità professionale che mi aveva portato a scegliere quella organizzazione

Lavorare nel servizio di accoglienza dell’associazione, nei progetti di alternanza scuola-lavoro, nella progettazione di attività formative per studenti disabili, nella realizzazione di mostre ed eventi culturali mi ha permesso di esplorare le domande molteplici e sfaccettate che, nell’ambito del terzo settore, può incontrare la psicologia. Tutto questo mi fa pensare al rapporto tra formazione e lavoro. La mia esperienza di tirocinio, infatti, è stata non solo una possibilità di esplorazione di un contesto ma anche una preziosa occasione per costruire criteri con cui rileggere esperienze lavorative pregresse e progettarne di future. Non è un caso, dopotutto, che oggi lavori in un’organizzazione del terzo settore, occupandomi di accoglienza, monitoraggio dei progetti e sostegno scolastico a studenti con disabilità.

Concepire un’esperienza di tirocinio che ha come obiettivo quello di sviluppare competenze utili nell’esercizio della futura professione comporta necessariamente il doversi interrogare su chi si è e che funzione si ha all’interno del contesto di lavoro, non rifugiandosi nel conforto di una risposta giusta, esistente, già data, ma implicandosi in un percorso di costruzione e messa a verifica continua della propria identità di tirocinante ma anche di futuro professionista. Allo stesso modo, fare esperienza di diversi contesti, anche inediti, e al tempo stesso trattare in maniera non scontata le questioni che ci si aspetterebbe venissero poste alla psicologia (l’accoppiata psicologia – disabilità non ci è mica nuova) permette, da un lato, di conoscere quei temi e intervenire in maniera più mirata e pensata, dall’altro di creare servizi, spazi e contesti di lavoro che possano rispondere intelligentemente a quelle domande.

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