Il lavoro di tutor didattico. Emozioni da pensare

Illustrazione per Pinocchio, Benito Jacovitti, 1946

di Martina Zanocco

Lavoro in un servizio di tutoraggio didattico per bambini e ragazzi con difficoltà nell’apprendere, sia come libera professionista che come collaboratrice di una Cooperativa Sociale. Nel mentre, mi sono formata e mi sto ancora formando alla professione di psicologa: conseguita la laurea magistrale, ho da poco iniziato il tirocinio post – lauream. 

I clienti che incontro nel mio lavoro sono ragazzi e ragazze che in alcuni casi hanno una diagnosi, in altri casi presentano problemi di apprendimento o partecipazione al contesto scolastico in assenza di diagnosi. Il mandato sociale del tutor didattico è quello di trovare il miglior metodo di studio per ciascuno studente, attraverso strumenti dispensativi e compensativi spesso proposti dai corsi che formano questa figura professionale come capaci di per sé di risolvere i problemi di apprendimento che incontriamo, garantendo all’operatore di avere a disposizione sempre una soluzione. Molte volte però ciò non basta e questo vale sia per il lavoro con studenti diagnosticati che non. Nel momento storico in cui viviamo infatti, oltre ad una generale crisi della fiducia verso il futuro fra cambiamenti climatici, crisi economiche ed aumento delle diseguaglianze sociali, anche la famiglia e la scuola come istituzioni sociali appaiono in crisi, ancora in cerca di una nuova definizione dopo gli innumerevoli cambiamenti che hanno vissuto nei decenni passati.

Pensando al sistema scolastico, la crisi che più si avverte è il fallimento di alcune collusioni che per molto tempo ne erano state a fondamento, come ad esempio la scontatezza con cui gli alunni stanno a scuola o che sia aspettativa condivisa che ciò che a scuola viene insegnato sia utile per l’inserimento sociale e lavorativo degli stessi. D’altro canto nel contesto scolastico c’è, fra i vari problemi, proprio quello di integrare aspettative diverse: le prescrizioni ministeriali di portare avanti il programma, le attese delle famiglie, gli idiosincratici modi di stare a scuola dei vari studenti, con disabilità e non. 

È all’interno questa complessità contestuale che si situa il lavoro di tutor didattico. A differenza però di altre figure professionali che lavorano nel contesto scolastico per rispondere ai problemi di apprendimento degli studenti, come ad esempio gli AEC o gli assistenti specialistici, il tutor didattico ha rapporti diretti molto sporadici con gli insegnanti e praticamente inesistenti con il gruppo classe di ogni studente con cui lavora; il rapporto all’interno del quale maggiormente lavora è quello con le famiglie, che sono peraltro le portatrici della domanda di intervento nonché finanziatrici dello stesso. Se l’AEC o l’assistente specialistico fanno da terzo nella relazione fra scuola e alunno ritenuto problematico, il tutor didattico sembra essere il terzo chiamato in causa nel rapporto tra famiglie e scuola, in una domanda di intervento che a volte vede confusa quella dei genitori con quella dei figli, utenti designati dell’intervento. Arriviamo ora al nocciolo della questione. Il lavoro del tutor didattico ruota attorno al fare i compiti che ogni pomeriggio vengono assegnati, insieme agli studenti. Fare i compiti richiama con tutta la sua forza evocativa la dimensione di adempimento, ancora così centrale quando si parla di apprendimenti. Spesso l’intervento rischia di appiattirsi su questa dimensione, soprattutto se, fra famiglie e scuola, c’è una collusione circa l’idea che basti adempiere al fare i compiti per garantire l’apprendimento degli studenti. Le domande (e le risposte) che i ragazzi con cui lavoro spesse volte mi pongono, però, fanno entrare dimensioni altre nell’intervento, che evidenziano l’impossibilità di veder realizzata la pretesa che basti adempiere per apprendere; domande e risposte come “a che serve studiare questo argomento?” o “ma che me ne frega a me”. Sono parole che sembrano richiamare le dimensioni di contesto accennate in precedenza, in relazione allo smarrimento di riferimenti condivisi a cui appoggiarsi per pensare al futuro e alla costruzione di un progetto di vita. 

Mi pongo anche io delle domande mentre lavoro: che vuol dire apprendere e formarsi? Apprendere che cosa e all’interno di che tipo di rapporti? Per provare ad ipotizzare risposte, il fare i compiti insieme potrebbe essere il pretesto per esplorare i vissuti di questi ragazzi e provare a rintracciare qualche desiderio verso il futuro. La difficoltà maggiore è quella di negoziare obiettivi che vadano oltre l’affannosa corsa verso l’adempimento e che possano portare sviluppo nella vita dei giovani con cui lavoro, tenendo comunque sempre presente che la scuola continua a detenere molto potere valutativo nei confronti di ciò che viene appreso e come. Non è raro che nascano conflitti; il lavoro di tutor sembra svolgersi sul crinale fra adempiere e costruire obiettivi con gli studenti, cercando e provando a creare spazi di pensiero per condividerli con gli interlocutori coinvolti nello sviluppo di questi ultimi, soprattutto la scuola e la famiglia.

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