
di Giordano Di Vetta
Lavoro da 10 anni come assistente alla disabilità in scuole primarie, secondarie di primo e secondo grado. Nell’ ultimo anno ho lavorato presso un centro di formazione professionale frequentato, per di più, da studenti tra i 14 e i 18 anni, con pregresse esperienze formative problematiche e alle spalle contesti fragili dal punto di vista economico, culturale e sociale. Sono studenti con bocciature multiple al primo anno di altri indirizzi di studio, studenti con gravi DSA e BES, studenti stranieri con difficoltà di lingua, minori residenti in case famiglia.
Il coordinatore di plesso mi propone di occuparmi di un primo anno in cui gli alunni con certificazione sono 6, ma mi invita ad occuparmi dell’intero gruppo classe poiché “non tutto quel che c’è è certificato”. Così, nel presentarmi agli studenti, mi presento dichiarandomi disponibile a lavorare con chiunque, sentendosi in difficoltà, faccia richiesta di un mio intervento. Durante le lezioni noto come spesso gli insegnanti facciano ricorso a rimproveri e sanzioni: i compiti non svolti, l’utilizzo di cellulari e strumenti elettronici, linguaggi “informali” e goliardici conducono tutti in presidenza, dove non di rado si ottiene anche una sospensione. Le regole sembrano usate per “domare” una utenza vissuta come “agitata”, da “calmare”, da contenere rigidamente. D’altro canto gli studenti fanno fatica ad accettare regole, come se altrove non ne incontrino o sia più semplice evaderle; non di rado “esplodono” in comportamenti ostili, soprattutto nei confronti dei compagni disabili, gli unici esonerati dal rigido rispetto delle norme e dalle sanzioni che derivano dalle trasgressioni. Così, un alunno sospeso, nel protestare contro l’insegnate, indica il compagno disabile urlando “a lui nun je dite gniente perché c’ha ‘a 104!”.
La critica dello studente è fondata. La disabilità, in questo contesto, attiva negli insegnanti comportamenti tolleranti, comprensivi, valoriali che, paradossalmente, contribuiscono alla emarginazione degli studenti diversamente abili, innescando un circolo vizioso che da un lato inasprisce sanzioni e dall’altro esaspera le marginalizzazioni.
Sembra che gli studenti che trasgrediscono alle regole e che lamentano troppa tolleranza nei confronti dei disabili vogliano essere riconosciuti nelle proprie difficoltà e, al contempo, avendo pochi strumenti per pensare e trattare con le diversità portate dai compagni disabili, non riescano ad elaborarla e ad elaborare un modo per stare insieme a scuola. Così, chiedo alla preside un incontro per condividere queste riflessioni e definire insieme delle strategie di intervento nella classe. L’utenza della scuola è molto problematica e sembra che la rigidità con cui le regole vengono presiedute sia un prodotto, una strategia che trova senso nella domanda di un territorio appesantito da molti problemi di integrazione sociale e una forte dispersione scolastica. L’unico modo per intervenire sembra includere gli studenti con disabilità nel rispetto delle regole ferree, un movimento che, la contempo, permette di ripensare limiti e risorse di tutti gli studenti.
Nelle classi questo provvedimento ha consentito agli studenti di viversi come membri di uno stesso gruppo, sottoposti alle stesse regole, desiderosi delle stesse trasgressioni. Sono aumentati i rapporti extrascolastici tra studenti e, soprattutto, non sembra più così automatico sapere cosa voglia dire avere una disabilità. Infatti, non solo sono aumentate le pratiche inclusive tra studenti, ma gli stessi ragazzi con disabilità sembrano dare a quest’ultima un significato diverso, non sembra più l’aspetto più importante, quello da mettere al centro dei rapporti, ma una caratteristica da rispettare di una identità più complessa, fatta anche di altre cose da scoprire.
In conclusione, potremmo dire che l’intervento è consistito nella costruzione di un nuovo senso della disabilità entro il contesto della classe attraverso la ricondivisione del senso delle regole del gioco con gli adulti formatori. L’azione inclusiva, dunque, è stata permettere una narrazione alternativa al “disabile buono”, in cui la disabilità diventa l’identità della persona che la vive, impedendone, di fatto, la conoscenza e l’integrazione nei contesti di convivenza.
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