di Chiara Giovannetti e Arianna Morrillo
Siamo due psicologhe che lavorano come assistenti specialistiche in una scuola professionale. Una di noi è psicoterapeuta, l’altra in formazione nella scuola di specializzazione in psicoterapia SPS, comune ad entrambe. Ci incontriamo all’interno di Across, associazione di cui una è socia fondatrice mentre l’altra vi svolge il suo tirocinio formativo: cominciamo a lavorare insieme sulla base del desiderio di far incontrare le nostre risorse, pur con la fatica di integrare uguaglianze e differenze.
L’impegno ad integrare differenze e uguaglianze apre spesso a conflitti ma pure mette in luce il desiderio di stabilire rapporti: crediamo che tutto questo sia molto centrale anche nel contesto scolastico. La disabilità di cui ci occupiamo come assistenti specialistiche è solo una fra le tante differenze che compongono quel contesto, introducendovi un numero considerevole di figure professionali, risorse deputate a favorire l’inclusione dello studente che ne è portatore. L’assistente specialistico svolge la funzione di mediatore, ponte fra la disabilità e il contesto, lavora per ridurre l’impatto violento che la persona con disabilità può incontrare andando a scuola.
A ben guardare, l’assistente specialistico, per integrare, ha necessità di integrarsi a sua volta dentro l’organizzazione. Integrarsi con il gruppo classe, con i docenti, con gli obiettivi dell’organizzazione, integrarsi con le aspettative della famiglia, con il gruppo dei colleghi assistenti specialistici e non per ultimo con le difficoltà e i punti di forza che lo studente con disabilità porta.
Questo tentativo di occuparci di un sistema complesso e articolato di rapporti può scivolare facilmente nella direzione del farsi includere/escludere in quanto assistente specialistico e può rischiare di diventare il senso e la finalità del lavoro stesso. Pensiamo alla differenza tra inclusione e integrazione: quando si include, si fa un’operazione di contenimento entro un gruppo, c’è qualcuno che include e racchiude dentro il dato gruppo. Il processo integrativo implica un’operazione differente: ci si integra insieme. L’integrazione ha a che fare con la condivisione di obiettivi. Ci si può sentire esclusi in quanto assistenti specialistici finché, ad esempio, si pensa l’insegnamento della materia come una questione legata al docente e alla classe, mentre quando si pensano e si condividono obiettivi, inevitabilmente emergono diversità possibilmente integrabili: il riscontro, così come il conflitto, assumono in tal senso significato e utilità.
Accade spesso nelle scuole che gli assistenti specialistici siano legati prevalentemente allo studente che seguono in classe e che lavorino in maniera disgiunta dai colleghi, sebbene sempre nella stessa scuola. Nella nostra scuola da anni gli assistenti sono impegnati nel tentativo di promuovere un’assistenza specialistica intesa come servizio coordinato e organizzato per la scuola, riconoscibile e affidabile per trattare problemi che l’organizzazione sperimenta in rapporto alla disabilità. Questa azione di contrasto ad un lavoro individualistico contiene in sé anche culture che però rischiano di non tenere a mente l’obiettivo del lavorare insieme.
Pensiamo in particolare ad un evento critico. Una di noi, poco dopo l’inizio del lavoro in questa scuola, rintraccia l’opportunità, condivisa con un docente e con una classe in cui svolge il servizio, di utilizzare uno strumento, il sociogramma, volto all’analisi delle difficili relazioni all’interno del gruppo classe, nell’ipotesi che uno studio più approfondito delle dinamiche relazionali fosse utile per intervenire sull’integrazione delle differenze nel gruppo.
Effettua la rilevazione dei dati, che consiste nel chiedere agli studenti di indicare delle preferenze rispetto ai compagni in due differenti attività, una ricreativa, l’altra lavorativa. Svolge l’attività su sua iniziativa rispetto agli altri assistenti specialistici presenti nella scuola, elabora una restituzione e si approssima a presentarla, sentendosi sufficientemente legittimata e principalmente orientata dall’accordo personale con il singolo professore e la classe che segue. I momenti di condivisione di questo lavoro con il resto degli assistenti specialistici fanno emergere fin da subito delle criticità. Questi ultimi, sebbene in misura e forme diverse si sono detti interessati a saperne di più ma si sentono esclusi dalla collega e dagli accordi di lavoro attorno al sociogramma, che pure riguarda il loro lavoro a scuola ovvero il modo in cui si declina la funzione dell’assistenza specialistica e gli strumenti che utilizza. Alcuni fra gli assistenti si sentono anche ignorati e non riconosciuti come gruppo di colleghi appartenente al servizio di assistenza specialistica riferendosi ad una gerarchia non considerata: tutto quello che esula dalle consuetudini di attività dell’assistenza specialistica deve passare attraverso la validazione della tutor di annualità, la figura che si occupa degli aspetti organizzativi, educativi e familiari di tutti gli studenti appartenenti a una data annualità nella scuola. Saltare questo passaggio sembra una questione talmente critica che il lavoro in classe si ferma e si innesca un’accesa diatriba rispetto ai passaggi da fare per non incorrere in problemi. La questione sembra riguardare anche il fatto che si rischia di mettere a repentaglio la credibilità e l’affidabilità dell’intero gruppo dell’assistenza specialistica, mettendo in campo competenze “altre”, utilizzando uno strumento che per alcuni sembra veicolare la “pretesa di fare gli psicologi”. Ci si pone in una dinamica difensiva tale per cui sembra difficile andare avanti.
Questo episodio ci fa riflettere su molti livelli: introdurre competenze differenti che fanno uscire da un consenso e dal senso di uguaglianza previsto e proposto dal gruppo di colleghi è un’azione profondamente trasgressiva, la differenza sembra essere percepita da alcuni anche come fregio con cui mettersi in mostra o comunque come strategia per risultare più visibili e affermati. La conseguenza del mettere in campo differenze sembra essere quella di sentirsi soli, fuori dal gruppo. In una dinamica di inclusione ed esclusione l’assistente specialistica sembra far fuori gli altri assistenti quando tratta il sociogramma come qualcosa che riguarda solo lei, il professore e la classe. Allo stesso tempo il gruppo di assistenti specialistici fa fuori la collega con il suo accordo di lavoro, assumendo la forma di chi ha il potere di bloccare o al contrario concedere la prosecuzione del lavoro avviato.
La gerarchia scolastica sembra essere pensata tutta intenta ad applicare una severità fine a sé stessa e poco sensata, alla quale va presentato il sociogramma, quasi come vittima sacrificale alla sua mercé, che in ultima istanza decide sull’accettazione o la bocciatura del lavoro. È stato possibile sentire il sociogramma come una proposta accettabile, comprensibile e condivisibile, solo quando si è potuto parlare insieme nel contesto scuola, del perché utilizzare un sociogramma e di cosa si era capito attraverso l’applicazione dello strumento: in questo modo tutti gli interlocutori implicati hanno potuto sperimentarsi anche come risorse potenzialmente interessate e interessabili, desiderabili e desiderose di implicarsi.
Pensiamo alla fatica che si fa a scuola a cogliere la portata delle differenze che la disabilità pone, ad organizzarle entro la proposta formativa. Ci chiediamo quindi: se le differenze spaventano, vengono vissute minacciosamente e si è più spesso presi dal tentativo di fare come se non esistessero, quali criteri ci diamo per lavorare e integrare le differenze che gli studenti con disabilità portano?