di Stefano CCucho Hoyos, Arianna Morrillo, Marco Sollami, Damiano Remigi
Secondo il senso comune, il pendolare è colui che, non risiedendo nel luogo in cui svolge la propria attività, deve recarvisi ogni giorno e ritornare ogni sera, servendosi, in genere, di mezzi di trasporto pubblici, ma anche privati.
La parola pendolare deriva da pendolo, ha a che fare con il suo movimento oscillatorio e ripetitivo.
Siamo quattro pendolari che si interrogano su questa definizione. Ci incontriamo da dentro la funzione tirocinanti psicologi e psicoterapeuti di Across, associazione di promozione sociale che progetta e realizza attività sul territorio in un’ottica psicosociologica, attraverso un continuo pensiero sulle culture dei differenti contesti di convivenza. Essere tirocinanti ci fa sentire pendolari, anche se svolgiamo questa attività quasi totalmente online. Riflettendoci, anche il ruolo di tirocinante è un ruolo che oscilla tra l’essere lavoratore, finalmente psicologo e l’essere studente, tra il sentirsi soli e la possibilità di condividere uno spazio di pensiero insieme. Ci sentiamo pendolari quando sentiamo di oscillare tra ruoli diversi e ambigui, spesso vissuti come a potere scarso: l’essere studenti universitari a Roma, figli nelle
nostre città di origine, dipendenti che fanno un “lavoretto” o liberi professionisti solitari. Sentiamo che sono ruoli “instabili”, a tempo determinato, che implicano la possibilità anche spaventosa di una fine: vivere questi limiti come ineluttabili rende faticoso investire e sentire di poter riconoscere un’appartenenza che sentiamo molto frammentata. Ci chiediamo cosa significhi per noi sentirci divisi e ci diciamo che una differenza riguarda il potersi sentire cittadini.
Il cittadino è colui che abita nella città e gode degli onori e dei benefici. Ma ha anche oneri. Chiamiamo le nostre città di origine come quartieri dormitorio, nel frattempo ci sentiamo ospiti della città di destinazione del treno.
Che beneficio c’è nello stare in un quartiere dormitorio? Ci diciamo
che riceviamo cose essenziali e date per scontate, un cibo e un letto, chiediamo asilo, sopravvivenza: in questo modo ci sembra di vivere rapporti parassitari. Andare nella grande città invece è per noi mettersi in rapporto con desideri spesso idealizzati e per questo vissuti come lontani. Facciamo l’ipotesi che ciò che sentiamo di aver costruito in quella che chiamiamo “mamma Roma” è la possibilità di sentirsi implicati in rapporti di scambio, produttivi, come nel caso dell’esperienza formativa universitaria, di specializzazione, o quella di tirocinio presso questa
associazione, che sentiamo preziose nelle nostre esperienze di vita. Roma è quell’altrove in cui ci impegniamo a sostenere processi, a costruire il nostro futuro, a volte idealizzandolo, mentre, d’altra parte, svalutiamo i contesti di origine che diventano scontati. Ci sembra allora che la questione riguardi potersi sentire in rapporti di scambio, in cui
l’appartenenza non è fondata solo sulla dipendenza e sulla solitudine, che ci fa vivere come profondamente instabili, ma anche sulla possibilità di implicarci per costruire attivamente, pensandoci in una progettualità. Ci viene in mente il senso di colpa generato dall’abbandonare la città di origine, posto in cui si sente l’ingombrante vissuto di non aver restituito nulla ma di aver ricevuto tutto. Sentiamo che in alcuni casi non riusciamo ad avere uno scambio, ci sentiamo insoddisfatti e ci chiediamo quali possano essere le dinamiche che intervengono a complicare questa possibilità. Sentiamo la distanza come limite e risorsa allo stesso tempo: se da un lato il vivere rapporti a distanza ci mette
di fronte a diverse criticità, come vivere rapporti a tempo determinato, sottostare ai tempi delle stazioni e costruire dove non abiteremo, dall’altro sentiamo la possibilità di mettere in discussione come si sta in rapporto agli altri, a pensare relazioni non dandole per scontate, recuperando un desiderio di manutenerle, di prendersene cura. Sentiamo emergere la consapevolezza di essere parte attiva nei rapporti, della possibilità di scambio dove possiamo dare oltre che ricevere, costruendo insieme all’altro prodotti terzi e obiettivi condivisi. E questo riguarda sia il contesto della città di origine che quello della città di arrivo. Sentiamo che il nostro non è l’unico modo di vivere il pendolarismo. Sui treni ci confrontiamo con diverse testimonianze di pendolarismo che si scontrano con i nostri vissuti e ci troviamo a fantasticare la soluzione per non sentirci più scissi, per fuggire dal disagio emotivo che ci causa l’oscillazione tra due appartenenze fragili. Da una parte ci sentiamo attratti dalla possibilità di scegliere finalmente un posto in cui fermarsi, scegliere una sola appartenenza, un luogo e non oscillare più: possiamo immaginare questa operazione come una divisione utile a risolvere il problema alla radice, dove per radice si intende il posto in cui si sceglie di far germogliare i propri
fiori. Dall’altra ci piacerebbe capire quell’oscillazione, dare senso ai nostri vissuti. È possibile recuperare questi limiti in quanto risorse? Pensare il proprio desiderio di continuità, in rapporto ai diversi luoghi, può forse permetterci di
formulare strategie utili a percepire la complessità derivante da appartenenze multiple?
Riscontriamo una differenza sostanziale tra la scelta di posizionarsi dentro un’unica appartenenza
e la possibilità di costruirne diverse in più contesti: nel primo caso, è possibile fuggire dalla
precarietà del pendolarismo solo in una serie di congiunzioni astrali fortuite o in scelte che negano
i limiti; nel secondo caso, è possibile costruire una competenza integrativa che permette di
progettare una complessità di appartenenze.