Culture del lavoro nel terzo settore, tra solitudine e marginalità

di Arianna Morrillo e Giulia Piacentini

Victor Vasarely, Zèbres , 1932-1942

Siamo una collaboratrice e una tirocinante di specializzazione in psicoterapia psicoanalitica di Across, un’associazione del terzo settore che si occupa di intervenire in contesti diversi, come la scuola, il mondo del lavoro, le famiglie, la sanità, la progettazione europea. Tra le varie attività, Across costruisce diversi interventi  a partire dai rapporti che nascono dal presente blog “L’altroParlante” a cui fanno riferimento professionisti del terzo settore, studenti di psicologia, soggetti interessati a trattare questioni  che vivono nelle proprie esperienze di lavoro o di vita quotidiana. In questa cornice variegata e articolata si inserisce un progetto  che abbiamo intrapreso nell’ultimo anno. 

Arrivano ad Across e al sito del blog l’Altro Parlante diversi curricula di persone che manifestano il desiderio di inserirsi nel nostro gruppo di lavoro, nonostante nel sito non ci sia una sezione “lavora con noi”. La questione ci sembra molto interessante, per cui, insieme alla tutor, che è una delle socie fondatrici dell’associazione, abbiamo pensato di leggere in maniera trasversale i curricula arrivati all’associazione per cogliere quali culture del lavoro queste persone propongono. Abbiamo così proposto loro dei colloqui esplorativi per comprendere meglio come vivessero il rapporto con i   contesti lavorativi in cui erano implicate e in cui avrebbero voluto implicarsi. 

Ci sembra interessante segnalare che i professionisti che  si erano proposti per il lavoro in associazione  (laureandi in psicologia e psicologi, educatori, logopedisti) portassero vissuti molto simili. In particolare, ci sembra che un grande vissuto, che organizzava i colloqui  esplorativi svolti  insieme a noi, fosse  un vissuto di solitudine e insoddisfazione profonda che fa dubitare della propria identità e delle proprie competenze professionali. Il rapporto con i colleghi sembra organizzato da un senso di competizione, in un mercato saturo e poco accogliente, in cui bisogna sgomitare, essere i più bravi per emergere. Ci si può far andare bene tutto, purché si riesca ad ottenere un lavoro: si percepisce costantemente un senso di precarietà e di incertezza della propria posizione, per cui sembra valere l’ipotesi che più si ha esperienza, non importa di che tipo, più si avranno opportunità nel mondo del lavoro. 

Pensiamo  come questo sia vissuto anche dai tirocinanti in psicologia ad esempio, che   si approcciano alla ricerca del tirocinio post laurea: ci si deve prodigare alla ricerca di una struttura entro termini e scadenze, sperando di poter essere accolti in un contesto che dia la possibilità di “mettere finalmente alla prova” le proprie conoscenze e competenze, anche solo attraverso l’osservazione.

Pensiamo che questo abbia a che fare con la fantasia e il desiderio di confrontarsi prima o poi con un posto fisso che in questi contesti è molto difficile da ottenere. Un posto fisso che può corrispondere al lavoro dei sogni, aderente alle proprie aspettative, quello che finalmente coronerà i molti  sforzi impiegati in tanti anni di studio o che, semplicemente, dia quella stabilità economica da molti ricercata. 

Ma in che consistono queste fantasie rispetto al “posto fisso”, descritto come garantito e sicuro? 

Questi vissuti ci sembrano problematicio, non solo perché oggi  è in crisi la possibilità di accedere a questo tipo di lavori, ma anche perché  sembrano rappresentare la possibilità di non implicarsi rispetto ai propri desideri. I lavori nel terzo settore, come quelli svolti in associazioni come la nostra,  in cui abbiamo svolto questa ricerca, non producono oggetti tangibili, ma servizi per le persone e, in quanto tali, non possono essere sempre uguali a se stessi.  Spazi di pensiero come quelli da noi proposti entro la cornice dei colloqui con i candidati, aprono alla possibilità di pensare alla propria professione in maniera imprenditiva, alternativamente ai vissuti di violenta svalutazione e marginalità che i candidati stessi portavano parlando della propria attività lavorativa.

In particolare, il servizio che abbiamo costruito e offerto in Across, con i colloqui esplorativi delle candidature spontanee, si configura come quello spazio, quella possibilità di soffermarsi a pensare la propria identità professionale, in cui poter ricucire nessi tra la formazione e i lavori svolti, che spesso sembrano molto differenti da ciò che si è studiato. 

I  candidati, a ben vedere, ci hanno proposto un’ambivalenza: da una parte la possibilità del posto fisso e la rinuncia a desideri specifici, in virtù di una sicurezza professionale ed economica, dall’altra l’insicurezza del lavoro da costruire. Questo è possibile però solo implicandosi,  sostenendo una possibilità di pensiero e di confronto sulle proprie fantasie e desideri. 

Ma come ci si implica? 

Ci sembra che una questione importante è che non ci si implica da soli, ma in una presenza di rapporti che si possono ritenere affidabili, non nemici. Ripensiamo alla solitudine portata da questi professionisti. Guardare i rapporti, pensare insieme la professione e farsene carico è una competenza  prettamente psicologica da proporre e da costruire, per manutenere in maniera imprenditiva il lavoro presso gli enti del terzo settore. Allora la proposta che si può fare è quella di poter condividere il contesto di lavoro  assumendo la posizione di chi vede nell’altro non un  nemico da neutralizzare, ma una  risorsa, un’opportunità di scambio.

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