di Francesca Romana Quadri, Veronica Schiavello, Martina Zanocco

A scrivere questo articolo sono due psicologhe e una tirocinante psicologa che operano nella scuola primaria, in maniera diretta o indiretta, da tre funzioni differenti: quelle di OEPAC (Operatore Educativo per l’Autonomia e la Comunicazione), di insegnante di sostegno e di tutor di studi. Le riflessioni che proponiamo sul contesto di lavoro scolastico si situano in un preciso momento storico, la cosiddetta fase di convivenza con il virus Covid 19. Tuttavia, ciò che tiene insieme i tre casi che resoconteremo non è tanto il contesto pandemico come fonte di necessario cambiamento, quanto la competenza organizzativa a ri-pensare e ri-orientare i contesti che si trovano ad affrontare mutamenti, al netto di nuovi limiti e risorse da costruire. Allo stesso tempo, i casi testimoniano come nei contesti formativi sia fruttuoso adoperare modelli di apprendimento che tengano insieme gli aspetti cognitivi con quelli emotivi, relazionali, affettivi.
Il MIUR chiarisce come la scuola primaria sia il primo ciclo di istruzione obbligatoria. Nel mandato sociale che la riguarda, vengono dichiarati obiettivi di sviluppo delle dimensioni tanto cognitive quanto emotive, affettive e sociali degli alunni; in continuità dunque con gli obiettivi della scuola dell’infanzia, che mirano allo sviluppo affettivo e relazionale del bambino, e con l’aggiunta dello studio delle varie discipline, cioè “la didattica”. Ciò che viene proposto sembra essere una scissione tra lo sviluppo affettivo relazionale e quello cognitivo, considerati come due linee parallele di sviluppo piuttosto che intrecciate e intersecanti. Inoltre, sparendo tra gli obiettivi dichiarati per il secondo ciclo di istruzione, lo sviluppo affettivo e relazionale sembra possibile e utile solo in questa fase dell’istruzione. Resoconteremo qui di seguito degli interventi realizzati attraverso un metodo che tenga insieme i due aspetti, integrandoli.
Con l’avvento della pandemia da Covid 19, la scuola come tutti gli altri contesti ha dovuto riorganizzare i modi di stare insieme nei plessi e nelle aule, sino ad arrivare ai casi in cui si è dovuti ricorrere alla didattica a distanza (DAD). Se si considerano poi gli alunni portatori di un qualche handicap o difficoltà la questione appare ancor più problematica e spesso delegata a chi di questi alunni si occupa. Sembra difficile dirsi quali obiettivi si possano perseguire con questi alunni specialmente in un momento come quello attuale, in cui i vissuti di paura e incertezza organizzano maggiormente i rapporti nei contesti rendendo più complessa l’individuazione di metodi e risorse per perseguirli.
Una di noi, in qualità di insegnante di sostegno che ha il compito di organizzare i processi di integrazione degli alunni con disabilità nelle classi, si è posta il problema durante il momento della ricreazione. Un giorno propose di proiettare dei video musicali alla lavagna interattiva da poter ballare stando ognuno al proprio posto ma tutti insieme, gioco che nei giorni successivi si trasforma con altre proposte da parte dei bambini, rimanendo entro i limiti del mutato contesto. Il punto interessante non era tanto a quale gioco si giocasse ma come si organizzava nella classe il processo decisionale di gruppo che consentiva di giocare. Spesse volte infatti, riproponendo la scissione tra sviluppo affettivo relazionale e cognitivo, le questioni legate alla convivenza e alla convivialità fra gli alunni vengono vissute come questioni che hanno marginalmente a che fare con l’apprendimento, risolto nello sviluppo e nella valutazione di abilità cognitive, e su cui intervenire al massimo trasmettendo regole da rispettare. In questo caso, la funzione che l’insegnante di sostegno ha pensato più utile svolgere è stata occuparsi proprio della convivenza, presidiando i limiti necessari allo svolgersi dei giochi, implicandosi in prima persona nel processo e condividendo con il gruppo classe momenti divertenti in cui apprendere, al contempo, a contrattare nuove regole e proposte. Col passare del tempo ogni alunno, con disabilità e non, ha potuto pian piano costruirsi una dimensione vera con cui partecipare ai giochi, potendosi sperimentare nell’esprimere le proprie idee anche se diverse da quelle altrui e cercando un modo per integrarle, poi, con quelle degli altri; allenando cioè la competenza a convivere in contesti comunitari, ovvero comprendenti differenze.
Accanto all’insegnante di sostegno, il contesto scolastico prevede la figura dell’OEPAC, chiamata ad occuparsi degli obiettivi educativi dell’alunno con disabilità. La declinazione operativa di tali obiettivi non è per nulla scontata e richiede una competenza organizzativa e relazionale a leggere i contesti e occuparsi dei rapporti in cui si è implicati, trattandone le domande e le questioni che incontrano. Un’altra di noi comincia a lavorare come OEPAC in una primaria di Roma sentendo inizialmente vissuti di confusione e poca chiarezza circa la propria funzione a scuola. In particolare, trova difficile lavorare con uno dei bambini a lei “assegnati”: un bambino Rom, con diagnosi di disturbo grave del linguaggio e di comportamento oppositivo provocatorio. Apparentemente isolato e disinteressato al gruppo classe, inizialmente il lavoro con lui consiste solo nell’arginare i comportamenti che recano “disturbo”, trattati come un fatto privato tra lui e l’operatrice e come un compito a carico dell’operatrice stessa. Fallendo questo tentativo, l’operatrice comincia a pensare di rapportarsi al bambino in maniera diversa, cercando di pensare insieme a lui i comportamenti che adotta in classe, coinvolgendo anche le insegnanti e i compagni in questo processo. Il bambino comincia a trovare simpatici alcuni compagni e a giocarci insieme, insieme all’operatrice comincia a sperimentare modi di stare in rapporto divertenti e affettuosi, acquistando fiducia nell’affrontare argomenti didattici che prima lo spaventavano a causa del suo disturbo del linguaggio, e scoprendo interesse nell’apprendere. Dandogli la possibilità di abbandonare lo stereotipo dietro cui si trincerava, il bambino ha costruito insieme al gruppo classe la competenza a stare nel contesto scolastico, e sviluppando insieme modi più autentici di stare in rapporto è stato possibile raggiungere anche obiettivi di apprendimento prima impensabili.
Nei contesti formativi dare la possibilità di potersi sperimentare in maniera autentica e inedita sembra una competenza indispensabile perché i rapporti continuino a perseguire obiettivi e sviluppare prodotti, come si è resa conto chi di noi negli ultimi tempi sta cominciando a lavorare come tutor di studi. Inizialmente il lavoro consisteva nell’accompagnare una bambina con ritardo del linguaggio a terapia e poi riportarla a casa; con i progressi della bambina e il termine della terapia la famiglia propone alla baby sitter di continuare il rapporto di lavoro, occupandosi ora di aiutare la piccola con i compiti. Iniziando ad incontrarla dalla funzione di tutor di studi ed aiutandola con i compiti di inglese, si rende perciò conto di diverse difficoltà che la bambina ha durante lo studio, fantasticando che queste possano avere a che fare con il poco interesse verso la materia. Queste fantasie vengono però disconfermate dalla bambina, che invece si dice interessata all’inglese. Colpita che le cose non stessero come si aspettava, la tutor pensa più utile non dare per scontato i bisogni della bambina ma di esserle di sostegno dove ne abbia bisogno, costruendo insieme modi utili di imparare l’inglese. Il fallimento delle aspettative della tutor e il riconoscere che l’interesse verso lo studio abbia a che fare anche col tipo di relazione proficua e divertente che le due hanno instaurato, hanno fatto sì che la bambina potesse essere vista e ri-conosciuta, nei suoi limiti e nelle risorse da scoprire e costruire, sfruttando proprio quel desiderio di lavorare insieme che sia la tutor che la famiglia tutta hanno.
Pur da diverse funzioni, l’intervento proposto in ognuna di queste esperienze è stato quello di interrogarsi sulla possibilità di rintracciare e costruire risorse, a partire dall’esplorazione dei limiti contestuali: porsi il problema degli obiettivi e del senso di ciò che si fa, a partire dalla funzione ricoperta nei contesti di lavoro citati, ha fatto sì che si potessero riconoscere modalità relazionali automatizzate e che, sospendendole, si potesse recuperare una certa quota di desiderio e produttività all’interno dei rapporti. In tutte e tre le esperienze accennate, infatti, interrogandosi sul senso stesso dell’apprendimento e stando in rapporto con i limiti e i cambiamenti dei contesti, è stato possibile proporsi obiettivi competenti che non solo mirano a generare risorse e prodotti nuovi, ma anche a manutenere i rapporti stessi che permettono di perseguire tali obiettivi.