Denis Mejdiaj
Sono uno psicologo che si sta formando in una scuola di psicoterapia e svolgo il mio tirocinio di specializzazione in un’associazione del terzo settore. Settore nel quale lavoro come Oepac in una scuola secondaria di primo grado, più comunemente chiamata scuola media. Comincio questa esperienza lavorativa in questo contesto a settembre del 2020 e sono interessato a esplorare e pensare come la pandemia entri dentro la scuola e come quest’ultima si organizza per poter continuare il suo operato.
L’Oepac è una figura che si inserisce a scuola con la finalità dell’inclusione della disabilità. A partire da una richiesta delle famiglie che ne hanno il diritto, la scuola può richiedere questa figura come risorsa utile ai processi integrativi e di socializzazione dell’alunno disabile nel contesto del gruppo classe e più ampiamente nel contesto scolastico stesso. La didattica e la socializzazione sono due funzioni che la scuola può assumere: la prima la riferisco a quell’insieme di metodi utilizzati per trasmettere dei contenuti predeterminati, riferibili alle diverse materie che vengono insegnate; la seconda riguarda l’aspetto delle competenze relazionali che sono messe in campo e che possono essere sviluppate dentro il rapporto degli studenti con i propri pari o con le figure degli adulti, quali insegnanti e Oepac. Propongo queste due categorie perché le penso utili per comprendere come poi vengano intese dentro le singole scuole, con le proprie specificità e differenze tra una scuola e l’altra. Faccio l’ipotesi che la disabilità nella scuola può mettere in crisi le metodologie che si pensano funzionanti, sia sul piano didattico che su quello socializzante.
Come dicevo, lavoro in una scuola media di Roma, con una cooperativa del terzo settore che offre il proprio servizio di integrazione scolastica, insieme ad altri due colleghi psicologi con i quali condivido il lavorare con degli studenti. Sono dei casi limite, studenti che dal punto di vista didattico fanno fallire le solite modalità di lavoro che ci si aspetta di poter portare avanti, tanto che portano a chiederci se il contesto scuola possa perseguire con loro degli obiettivi didattici. Più interessante sembra essere la dimensione di socializzazione che può essere sviluppata, anche questa con dei limiti importanti, nella misura in cui è necessario capire quanto la scuola sia interessata a proporre dei momenti di lavoro differenti dalle classiche lezioni frontali, che quotidianamente persegue. Lavorare quindi sulla socializzazione, con quali obiettivi? Apprendo in questo anno di lavoro che gli obiettivi hanno la necessità di essere costruiti, inventati, soprattutto nel caso di forme di disabilità che fanno saltare le tipiche modalità di lavoro nella scuola. Entro questa ottica, una delle prime tappe di lavoro è quella di condividere con colleghi e committenti gli obiettivi del proprio intervento, ma apprendo che non sempre questa modalità è perseguibile. Ci è voluto un anno per poter cominciare a parlare nella scuola di obiettivi da perseguire, attività da svolgere, progetti da costruire e risorse da utilizzare. La disabilità può essere vissuta dalla scuola come un ostacolo al suo regolare operato. Per poterla utilizzare come dimensione interessante penso sia necessario interrogarsi su metodi e obiettivi messi in campo nel lavoro. Questo può essere utile se si pensa che lavorare con la disabilità non significhi immediatamente lavorare con la persona disabile, quanto lavorare con una classe di studenti che presenta al suo interno delle differenze. Il punto diventa lo stare in rapporto a quelle differenze.
In tutto questo come rientra la pandemia e il Covid-19? Penso alla pandemia come a quell’elemento che ha posto la scuola media presso cui lavoro dentro un vissuto di emergenzialità costante, affannandosi continuamente a garantire il regolare svolgimento delle attività didattiche, cercando di garantire a famiglie e studenti la sicurezza nel contesto. Il Covid-19 non è un fatto individuale ma una questione sociale: mascherine, gel igienizzante, distanziamento, isolamento fiduciario. Più si sta vicini e più alto è il rischio che il virus si diffonda da una persona all’altra, tra i banchi di scuola, tra insegnanti, operatori ATA e Oepac. La socialità è pericolosa e il diritto allo studio in presenza va garantito. Da dentro questo paradosso la scuola ha continuato a lavorare, con l’avvicendarsi di classi che nel corso dell’anno sono andate in DAD (didattica a distanza), con una media di tre classi al mese. Per lungo tempo le questioni di socializzazione degli studenti erano messe in disparte, non viste, non udite, quasi a voler mettere alla porta la socialità e con essa il virus. La didattica era il perno centrale di ogni discussione, la sua garanzia il motto. La paura del contagio passeggiava tra le classi, la quarantena bussava a questa o a quella porta. Anche la pandemia, nella sua angosciante pericolosità, è vista come ostacolo al lavoro a scuola, nella misura in cui la DAD è vissuta come qualcosa di alieno e alienante. La fantasia che tutto ritorni “come prima” al più presto fa problema, se questo poi non permette di poter pensare a nuovi metodi di lavoro da sviluppare, ma lascia la scuola nel limbo di un anno scolastico in attesa che tutto passi.
Con il tempo, faticosamente, come Oepac, insieme ai colleghi e alle insegnanti di sostegno, abbiamo proposto alcuni obiettivi di socializzazione che potessero essere utili non solo per gli studenti che seguiamo, ma per la classe nel suo complesso. Partendo dall’ipotesi che tutti gli studenti vivevano e vivono tutt’ora insoddisfazione nei rapporti con i pari e con gli adulti. Abbiamo proposto un laboratorio di giardinaggio, che permetta di stare sul “prendersi cura” di qualcosa insieme agli altri. Laboratorio che la scuola ha trovato interessante e che ha inserito dentro i suoi piani progettuali triennali, a partire dal prossimo anno. Questo ha preso la forma di laboratori utili alla riqualificazione della struttura scolastica.
In chiusura, trovo interessante la dimensione di “ostacolo” che può essere attribuita sia alla disabilità che alla pandemia. In entrambi i casi possiamo pensare che il problema appartenga al singolo, al disabile per la disabilità, al positivo per la pandemia. Se il disabile non riesce a stare alla proposta della scuola, allora si possono attivare delle figure che lo seguono individualmente, magari facendogli fare qualcosa che è fuori dall’operato del gruppo classe; se il positivo è pericoloso, allora lo si pone fuori dal contesto scolastico, mentre per chi è dentro si fa il necessario per tenere ben controllati i singoli individui. Propongo l’ipotesi che pandemia e disabilità siano delle dimensioni che investono non l’individuo, ma il contesto scolastico. Poterli pensare come elementi di limite dentro i quali problematizzare il proprio lavoro, permetterebbe di trovare nuove strategie e metodi di lavoro interessanti e utili.