di Giordano Di Vetta

La legge 28 agosto 1997, n. 285, “Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza”, ha istituito un fondo nazionale speciale da destinare a interventi a favore dell’infanzia e dell’adolescenza realizzati dalle amministrazioni locali. Oggi il fondo viene ripartito tra 15 città con vincolo di utilizzo secondo gli scopi definiti dalla legge. Tra gli strumenti promossi dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali per la buona riuscita della sperimentazione 285, vi sono il Tavolo di coordinamento tra Ministero del lavoro e delle politiche sociali e Città riservatarie e la Banca dati dei progetti. L’utilizzo del fondo è oggetto di monitoraggio periodico dei progetti realizzati dagli enti locali, favorendo lo scambio di esperienze e l’organizzazione di occasioni di approfondimento utili al miglioramento delle politiche rivolte a bambine, bambini e adolescenti. All’interno di un piano di attività annuale finanziato con i fondi 285, il lavoro del Tavolo di coordinamento sviluppa approfondimenti specifici, individua aree di sperimentazione innovative, o promuove indagini ad hoc utili a rappresentare le caratteristiche delle politiche delle città in questo settore.
La cooperativa presso cui lavoro vince un bando che eroga i fondi stanziati dalla legge 285/97 per progetti capaci di contrastare la marginalità sociale di alcuni quartieri alla periferia di Roma. Partecipo al progetto in attività di educativa territoriale, di cui, di seguito, resoconto due esperienze.
Il torneo di calcio. Dalla frammentazione sociale alla condivisione di appartenenze
Con il gruppo di lavoro esploriamo i quartieri del municipio con un camper, con particolare attenzione ai quartieri più periferici segnalati dai servizi sociali. Avviciniamo piccoli gruppi sparsi di giovani che sembrano non avere nulla in comune a parte l’età e il calcio come interesse totalizzante. Scegliamo di partire da lì, organizzando un torneo di calcetto, perché i giovani usano il linguaggio calcistico per parlare del territorio, dei suoi rapporti.
E’ un territorio frammentato, in cui i giovani fanno fatica ad organizzarsi in gruppi. Abbiamo così proposto loro di “costruire delle squadre”, ovvero di costruire una appartenenza sulla base di rapporti futuribili e affidabili orientati ad obiettivi comuni. Farsi carico di un desiderio, però, ha i suoi costi e subito “mettono in campo” piccoli eventi critici: c’è chi si presenta in 3 ad un torneo di calcio a 5, chi non riesce ad accordarsi sul colore della maglia, chi sbaglia la data degli incontri. Indizi che ci parlano della fatica a costruire obiettivi in comunità virtuose piuttosto che virtuali. La vera partita sembra proprio questa, provare a tessere interessi condivisi con i pari, nel territorio, piuttosto che moltiplicare relazioni via chat a cui si partecipa dal privato della propria cameretta. Con qualche incontro in cui discutiamo le difficoltà si avvia il torneo a squadre; chi non riesce a costruirne una sente di volersi implicare e chiede di aiutare gli organizzatori nell’appendere striscioni, tenere i punti, occuparsi dei fratelli minori dei calciatori che corrono intorno al campo. Ad arbitrare Andrea, un arbitro e giocatore di calcetto del territorio che ci dà riscontri interessanti: “le partite sono appassionate e rispettose delle regole, mi sono divertito a collaborare!” ci dice.
La R@C Soccer League si conclude con la finale “v9 foxes vs Triangoli Perfetti”. La prima è praticamente la squadra di casa, composta da giovani del quartiere e dei palazzi limitrofi al campo. Al momento di una sostituzione, il nuovo giocatore viene convocato al citofono e la madre, dal balcone, conferma l’autenticità della liberatoria con un “sì sì pò gioca’!”. La seconda squadra è composta da ragazzi stranieri, giunti in Italia come migranti e ospiti di un centro di accoglienza per minori non accompagnati. Parlano un paio di lingue e guardano al calcio senza familiarità ma con competenza e curiosità. E’ una sfida tra opposti, tra marginalità, tra chi pensa che il mondo finisca a nel quartiere e chi, nonostante la giovane età, ha attraversato terre e mari stranieri senza sapere la meta. La sfida è combattuta, un gol, un pareggio, un sorpasso, un nuovo pareggio. Il gioco viene interrotto per circa una mezzora perché il pallone si perde nell’erba alta di un prato limitrofo. La sfida ora è trovarlo e si improvvisano squadre di famiglie, giovani, bambini persi tra le frasche. Il pallone va perso ma la partita è diventata una cosa importante per tutti i partecipanti. Così un bambino di 8 anni, prima affacciato ad un balcone, scende le scale, ci raggiunge e ci presta il suo pallone “Voglio vede’ come finisce!”.
La contesa finisce in parità e si va ai rigori. I v9 vincono per un punto, è festa anche per i palazzi pieni di curiosi. Le squadre si salutano con una stretta di mano, c’è chi si scambia il numero di telefono “sei forte ti chiamiamo per giocare!” Si alza la coppa della vittoria, sottratta al fidanzato di un’operatrice e ri-targata per l’occasione ora destinata, secondo il volere dei vincitori, ad essere esposta negli uffici della parrocchia che ha ospitato il torneo.
Che rimane di questo intervento?
Giorgio Gaber nella “Canzone dell’appartenenza” ci ricorda che appartenere è “avere gli altri dentro di sé”: se gli altri diventano squadra, “quelli del campetto”, “quelli del torneo”, “quelli che partecipano con me” a un “rito” straordinario si innesca un cambiamento, si propone la possibilità di un’appartenenza vitale, che conosce la fatica e desidera prodotti, un riferimento di senso che, se presidiato, può farsi risorsa nell’ordinario.
In prospettiva freireiana: L’unità nella diversità ed educazione interculturale e giustizia sociale
Nell’introduzione del volume “Pedagogia in cammino, lettere alla Guinea Bissau” (1979), Freire racconta l’esperienza di costruzione di un programma educativo per l’alfabetizzazione del paese. Parte dall’assunto che non sarebbe stato possibile perseguire questa finalità “impacchettando” azioni educative a Ginevra (sede dell’istituto di azione culturale committente del programma di educazione) e portandolo i Guinea Bissau come se fosse un dono da parte di un gruppo di esperti. La proposta educativa doveva nascere entro un dialogo con la popolazione locale, a partire dalla conoscenza dell’identità culturale di educatori ed educandi del luogo. Solo tale impostazione avrebbe pienamente riconosciuto la dignità del popolo guineano.
Nell’intervento di educativa territoriale proposto cogliamo elementi di questo atteggiamento. Si va su un territorio con un furgone, si ascolta prima di agire prima di pensare un’attività. Vagando in cerca di piccole comitive si conoscono interessi, si analizzano linguaggi. Si incontrano ragazzi di una comunità di accoglienza per minori migranti non accompagnati e si pensa a come farli dialogare con la realtà che li circonda e i quartieri in prossimità del centro che li ospita. Si riconoscono gli interlocutori incontrati, ragazze tra gli 11 e i 16 anni, come “competenti” ed in grado, se supportati, di proporre un’attività. Si raccolgono proposte, si intercetta il desiderio di giocare le appartenenze, legate a diversi quartieri, scuole, comitive, e l’identità di “giovani migranti” attraverso il calcio. La creazione del torneo ha richiesto la partecipazione a riunioni organizzative, la scelta di luoghi e criteri di partecipazione pensati entro la valorizzazione di competenze e risorse presenti nel contesto ma inutilizzabili perché mai identificate come tali, siano quelle strutturali – come un campo di calcio parrocchiale inutilizzato, o quelle dei giovani partecipanti mai sollecitati a sostenere processi organizzativi e produttivi. Insomma non è stata “impacchetta a Ginevra” un’attività, ma la si è costruita entro i rapporti con il contesto educando, con le persone incontrate, creando spazi di dialogo su oggetti comuni tra le micro culture locali delle comitive e la comunità di giovani migranti. Per quanto il calcio sia un linguaggio molto parlato dal popolo, ne cogliamo aspetti di dominio culturale da parte delle élite finanziarie mondiali, che detengono la proprietà di club, stadi e dei sistemi di scommesse mentre il quartiere in oggetto dell’intervento è caratterizzato da impianti sportivi abbandonati, e giovani e cittadini che potrebbero usufruirne per fare sport, sono costretti ad andare in altri quartieri ed utilizzare impianti privati. Queste riflessioni sono state oggetto di discussione all’interno del processo di costruzione del torneo. Mentre si dialogava su una mancanza la si colmava insieme progettando un gioco possibile. L’intervento ha così in qualche modo risignificato per il quartiere il senso di fare calcio e l’organizzazione di incontri con il Municipio committente ha consentito di resocontare le domande e le risorse del territorio agli enti locali al fine di ottimizzarne l’amministrazione.
Freire “Pedagogia dell’autonomia” (2004) afferma che “l’insegnare esige riconoscimento e l’assunzione di identità culturale”: nel dialogo che ha portato alla realizzazione dell’evento sportivo descritto sono lette identità culturali vitali ma anche segnate da immaginari egemoni, che decostruiti hanno lasciato spazio ad un dialogo tra culture.