Ne “La camera chiara” (1980), Roland Barthes raccoglie alcune considerazioni attorno alla fotografia. Recupera l’invenzione della camera lucida o chiara, che permette di sovrapporre otticamente l’immagine da ritrarre a quella che si sta disegnando. Questa sovrapposizione consente di trasferire le coordinate salienti dell’oggetto alla superficie di disegno, aiuta la resa prospettica, ma soprattutto ci consente di vedere lo scarto tra la cosa e la sua rappresentazione. Quando fotografiamo nell’illusione di ritrarre il reale costruiamo una complessa sintesi del nostro rapporto con la realtà e la organizziamo dando forma al mondo emozionale. Ecco che la fantasia di possedere ciò che è dentro e fuori di noi si rivela in tutta la sua umana illusorietà. Ciò che resta è “solo” la possibilità di esplorare, conoscere, inventare. In questo scritto Tétè, anche lei assieme a una Chiara, recupera alcune premesse del suo lavoro di psicoanalisi, prova a disegnarne il profilo, senso e parole, a riconoscere prodotti, utili oggi per guardare al futuro.
Federica Di Ruzza

di Tétè
La domanda arriva diretta, buca il silenzio mentre, sul lettino, cerco di raccogliere i pensieri. È una domanda che mi suona stranissima, estranea, straniante.
“Non credo di sognare molto, in ogni caso molto spesso non ricordo cosa ho sognato”. Scopro, nella mia risposta, un certo desiderio di chiudere l’argomento, di esaurirlo in quella risposta assertiva, anche se non so perché. La terapeuta mi chiede se c’è qualche sogno che ricordo, anche solo qualche particolare; ci penso, mi viene in mente un sogno che facevo spesso da bambina, ogni estate durante gli anni delle elementari: sogno di essere a scuola, e nel sogno sono consapevole di stare sognando, sono consapevole che è luglio e dovrei essere a giocare fuori invece che in classe dietro un banco; così, nel sogno, chiudo gli occhi e mi concentro per svegliarmi, cosa che puntualmente accade.
Mi sembra, oggi, di non ricordare come si svolse il resto di quella seduta, ma ricordo bene di essere uscita dallo studio con un senso di malessere fisico, quasi una nausea.
Negli incontri successivi, il sogno diventa argomento principale: apre altre porte, altri mondi, rovescia significati, pensa e fa pensare. Si sogna di notte (quasi sempre), sognare ad occhi aperti, te lo sogni di poter fare quella cosa…
Nascondo (forse neanche tanto) un po’ di incredulità sull’utilità di parlare così tanto di sogni: mi capita di pensare della terapeuta, durante le sedute, “vediamo dove vuole andare a parare”, ma non glielo dico mai. Con l’andare avanti del lavoro però, mi rendo conto che quel dubbio (“vediamo dove vuole andare a parare”) si adatta bene, forse anche meglio, su di me. Vediamo dove voglio andare a parare.
Comincio a ricordare i sogni che faccio, comincio a saper scendere nei particolari, e più volte nel corso di questi anni la terapeuta mi fa notare “lei è arrivata qui dicendo: io non sogno…”, è un bell’invito a pensare a quanto quella parte oscura di noi (si sogna di notte…) sia importante, e quanto sia pericoloso farla fuori. La rinominiamo Chiara: uno schizzo di ironia che mi rende meno insopportabile la paura di doverci avere a che fare, con quella parte di me così buia, dove albergano, perché ce le ho costrette io sperando di mandarle in vacanza, quelle emozioni nere: la rabbia, la violenza, l’arroganza, il fastidio.
Durante una seduta parliamo di mio padre: è morto improvvisamente quando ero bambina, un ricordo quasi inesistente della mia infanzia, o così credevo. Ne parliamo, come di un fatto che sento lontanissimo, e che ben poco ha a che fare con il presente. Attraverso il ricordo e il sogno però mi permetto di scoprire che non è un fatto, che non è estraneo a me, che non ha attraversato la mia vita senza lasciare traccia. Ha organizzato e rimodulato rapporti, mi sembra che in qualche modo il parlarne offra spazio a quelle emozioni, offra spazio a Chiara. E quando smetto di trattare la morte di mio padre come un fatto, ecco che mio padre compare nei sogni: un papà in rapporto con la me adulta, un papà che parla con il mio compagno (nella realtà mai conosciuto), che sembra dire “io ci sono, come ci sei tu”. Ancora adesso il ricordo di quel sogno mi emoziona molto, perché credo che mi dica tante cose, sui rapporti che riempiono la mia vita, sui vissuti, sulle emozioni, tanto ancora da scoprire.
Ogni tanto penso a questi anni di terapia cercando di trovare una linea che li unisca, di individuare un percorso, una strada; oggi mi viene da riassumerli così: ho imparato a sognare.