Roma eppur si muove. Tracce di desiderio nella crisi della convivenza

Di Federica Di Ruzza

Gustave Doré, Neophyte, 1875, 36×26,7 cm, New York, Fondo Elisha Whittelsey
Oggi Roma sembra essere sinonimo di degrado. Un degrado visibile nelle strade senza cura, nei giardini stecchiti dal sole e pieni di spazzatura, nelle vicende di Mafia Capitale di cui, ogni giorno, si aspettano tristi aggiornamenti. Una città logorata e offesa dall’uso privatistico e insano del potere, sempre più distante dai suoi cittadini nonostante sparuti tentativi dell’amministrazione di incontrarli in appuntamenti rituali come quello dell’Estate Romana. A queste recenti vicende si intersecano, poi, faticose trasformazioni locali. Si pensi alle lamentele rabbiose che anni fa animarono il caso della movida notturna di quartieri come San Lorenzo e Trastevere, la questione dell’accoglienza di migranti e nomadi a  Tor Sapienza e Acilia, quella delle case popolari del Tufello e Tor Bella Monaca. Situazioni appesantite dalla crisi economica e dalla crisi dei valori tradizionali che, sostenuti in passato dalle ideologie politiche e religiose, sembravano riuscire a organizzare risposte alle domande di appartenenza e sviluppo mosse dalla cittadinanza.

Ma Tor Pignattara, Tufello, Tor Sapienza, Tor Marancia, San Basilio, Tuscolano sono periferie oggi nominate non solo per i roghi tossici, l’occupazione e lo sgombero di case, violenza o spaccio consumati nell’ombra di qualche parco o vicolo cieco. Sono esempi di periferie attraversate dal desiderio. I parchi si animano sempre più di podisti, compleanni di bambini, corpi al sole per per la prima tintarella. Attività che, neanche dieci anni fa, sembrava potessero essere praticate solo in luoghi chiusi, specifici, possibilmente esclusivi. E poi murales che giganteggiano sui profili delle case, strade polverose attraversate dalla musica della murga, improvvisazioni teatrali su marciapiedi e strisce pedonali; mercatini virtuali che, attraverso i social network, facilitano lo scambio di manufatti, birre fatte in casa, catering artigianali proposti e scambiati da qualcuno che nella vita “fa altro” o si è inventano un nuovo lavoro a partire dalla fatica di penetrare il mercato attraverso grandi organizzazioni. Linguaggi artistici e artigianato sempre più spesso usati per rispondere alle esigenze di aggregazione e partecipazione di diverse appartenenze sociali.

Dunque, quale domanda è possibile intercettare in questo movimento? Sembra utile che le amministrazioni sviluppino una competenza a leggere questi cambiamenti. Una competenza che potremmo dire psicologica, ovvero orientata a pensare il rapporto tra individuo e contesto.

Alcune ipotesi. Pare che le amministrazioni siano sempre più convocate a inventare strategie con cui curare e manutenere i sistemi di convivenza, ovvero quegli equilibri dinamici che tengono insieme appartenenze, estraneità e regole del gioco che ne regolano i processi di condivisione e sviluppo. Potremmo pensare, ad esempio, che la rivitalizzazione degli spazi pubblici e le esperienze artistiche e artigianali non siano solo occasioni aggregative o tentativi di fronteggiare la disoccupazione ma possibilità per organizzare interventi sociali in continuità con questioni e problemi.  Quegli stessi problemi che più su abbiamo nominato così come appaiono descritti sui giornali, spesso capaci di cristallizzare le identità dei quartieri che li ospitano.

Parlare di interventi porta con sè il “problema delle risorse”, scarse per definizione, ancor  più in tempo di crisi. Oppure no. Si può riconoscere le risorse come limitate, non infinite, come punto di partenza. E risorse limitate vuol dire evitare gli sprechi, come operare a prescindere da una domanda. Oggi la domanda della cittadinanza a Roma e alla sua amministrazione sembra operare un salto acrobatico capace di rovesciare i termini del rapporto: non la richiesta di assistenza o intrattenimento, ma l’offerta di competenze e risorse su cui imprendere ed investire a favore della città nella sua totalità e dell’immagine di Roma come capitale in grado di “capitalizzare” il proprio patrimonio. Un investimento che sembra capace anche di connotarsi come risposta alla domanda di quel nuovo turismo attratto non solo dalle “bellezze note e centrali” della città, ma anche dai movimenti sperimentali, innovativi e decentrati delle capitali europee. 

Tenere insieme continuità e discontinuità tra problemi e nuovi rituali, tra centro e periferia, tra passato e presente significa investire sulla possibilità di ampliare il ventaglio di gradi di libertà in cui può prendere forma il futuro. Un futuro in cui l’immagine di Roma spettacolare ed eterna – spesso riproposta come lifting di una Roma decadente e corrotta – possa cedere il posto a quella di una Roma competente, una eccellenza in cui cittadinanza e amministrazione siano capaci di lavorare insieme al comune obiettivo di progettare il futuro della propria convivenza. Una città, dunque, non solo capace di “togliere il fiato” perché capace di “grande bellezza” o perché asfissiante nella sua decadenza; una città, piuttosto, capace di “grande respiro” per i suoi interlocutori più prossimi e locali così come per quelli più distanti che, dal resto del mondo, possono essere stupiti proprio dalla competenza ad investire sulla realtà delle risorse quotidiane.

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