Di Federica Di Ruzza

Al di là dei più noti e annosi, negli ultimi tempi in Italia molte iniziative promosse da piccole organizzazioni e istituzioni scelgono di chiamarsi ‘festival’. Artisti scomparsi, lotta alla criminalità, riqualificazione di aree degradate, tradizioni popolari, prodotti locali, tecnologia. Solo alcuni tra gli oggetti attorno a cui si muovono concerti, spettacoli teatrali, poesie, bancarelle, finger food e panini alla porchetta.
Ma perché proprio ‘festival’? Non festa, sagra, contest, maratona, annale?
Si sa, le parole non sono mai a caso. Anzi. Potremmo dire che non tanto chi parla quanto le parole stesse scelgano dove presentificarsi e liberare i sensi che custodiscono. E le parole sono sempre sintonizzate con l’aria che tira. Con la cultura del luogo e del tempo che vivono.
Dunque chiedo a loro di aiutarmi a capire.
Etimologicamente la parola ‘festival’, come ‘festa’, deriva dal greco estiao, “banchetto, festeggio, ospito” e rimanda ad eventi caratterizzati dalla condivisione di cibo e giochi. Festeggiare é, dunque, un evento conviviale, che richiede riti da condividere con interlocutori, ospiti di una dimensione extra ordinaria che sospende l’ordinario. Lo sovverte, lo provoca, ne denaturalizza gli assunti. Ma nel latino medievale compare la parola festival. Come a dire che “festa” non basta a render conto di qualcosa. Per esempio aspetti culturali che necessitano di nuovi significanti per nuovi significati. Anche il “festival” si costruisce attorno alla convivialità e alla sospensione dell’ordinario ma introduce un senso diverso del tempo. La linearità della sequenza che distingue ordinario e straordinario si arricchisce di circolarità: “ordinario e straordinario torneranno”. La ricorsività diviene così allusione al futuro, in un momento storico in cui pare affatto scontata la sua esistenza. Nel Medioevo le istituzioni centralizzate derivate dagli imperi entrano in crisi e si ha bisogno di nuove forme di organizzazione locale; la Chiesa Cattolica prima garantisce riferimenti religiosi e culturali in grado di naturalizzare sensi e verità sull’uomo e il mondo, poi prepara le basi per scismi, antipapi e riforme; il pensiero scientifico e filosofico oscillano tra i tentativi conciliatori della Scolastica e le correnti fideistiche più integraliste, contribuendo a propria insaputa a gettare le basi per la fatica del relativismo Novecentesco. Il Medioevo, dunque, ha richiesto una profonda fiducia nel futuro e una enorme competenza a tollerare l’attesa. È dentro queste emozioni che si colloca l’invenzione di parole nuove capaci di rassicurare e di aiutare ad osare. Oggi, forse, l’Italia comincia a rileggere la crisi economica, del lavoro, della scuola, delle città, in termini di crisi dei sistemi simbolici che fino a qualche tempo fa sostenevano i sensi del mondo e le sue organizzazioni. Oggi, dunque, “fare festival” pare un modo per tornare a riconoscere nella convivialità la dimensione più utile a trattare con l’incertezza dell’attesa, la costrizione di nuove sacralità e il desiderio di futuro.