Federica Di Ruzza

Tra febbraio e giugno 2016 lavoro in una scuola medio inferiore della periferia di Roma. L’istituto si trova in un’area residenziale, stretta nel verde che separa case popolari e condomini borghesi. Quando arrivo nella scuola mancano pochi mesi agli esami e concordo con i docenti la possibilità di lavorare con una classe III, impegnata nella preparazione di questa prova. Viene così elaborato un “laboratorio sul metodo formativo” che abbia la finalità di sostenere le attività curricolari dell’esperienza scolastica.
La classe viene suddivisa dagli insegnanti in 3 piccoli gruppi. Incontro ciascun gruppo 2 volte, in una piccola stanza piena di libri, cartine, trofei e materiali didattici in disuso.
Il primo gruppo è formato da studenti che potremmo definire “bravi”. Entrano silenziosi e composti, portando con sé penne e fogli. Vengono dalle famiglie “bene” del territorio e subito mi propongono di lavorare alle loro tesine. L’equitazione, il violino, la guerra, le migrazioni, l’identità. Ognuno cita il proprio argomento, scelto con cura tra gli interessi sviluppati fra i banchi o nelle attività pomeridiane a cui si dedica. Presentazioni che sembrano attendere un “bravo” come commento finale che liquidi la questione. Non c’è fatica a costruire mappe concettuali ma la capacità di orientarsi entro l’organizzazione del sapere è accompagnata da una profonda solitudine. Parlare insieme delle tesine è vissuta come un’esperienza “straniante” se confrontata con un’abitudine scolastica a lavorare da soli e in competizione. La “solitudine formativa” ha come “alter ego” solitudini altrettanto ingombranti nella vita “fuori scuola”: non esistono rapporti di amicizia, uscite nel quartiere in cui stare insieme, prevalgono invece attività musicali e sportive “agonistiche” di cui si soffre la dimensione prestazionale individuale. Discutere insieme delle tesine, qui, diviene occasione per rendere parlabile la fatica del mito obbligante dell’eccellenza individuale e competitiva, un mito che ha fatto della scuola una esperienza conformista ed esibizionista. Cominciano ad essere raccontati episodi che coinvolgono anche altri membri della classe non presenti fisicamente all’incontro; vengono in mente come rapporti inesplorati, intrappolati entro caste di apprendimento finora prese troppo sul serio, al pari di quei frammenti di sé che ciascun partecipante sembra aver sacrificato per salvaguardare la maschera senza ombre del “primo della classe”. Entro questo gruppo, dunque, “metodo di studio” diviene sinonimo di un apprendimento in grado di riconoscere le dimensioni “affettive” della formazione, che connettono non solo discipline e concetti, ma anche i partecipanti al medesimo contesto formativo, le loro differenze, e la capacità che queste hanno di ricordare a ciascuno anche le proprie.
Il secondo gruppo si configura come particolarmente anomico, senza regole di cui fidarsi e a cui affidarsi. La scuola è raccontata mollemente, senza paure o desideri, gli esami non assurgono nemmeno allo status di persecutori. “Scuola” è obbligo a stare in classe, ma anche infinite passeggiate nei corridoi in attesa del pomeriggio durante il quale riprodurle nelle corsie di un centro commerciale. Sembra non esserci niente nelle loro vite, e se qualcosa c’è è un fatto, qualcosa che accade. Preceduto e succeduto da qualcos’altro che confusamente accade fuori dal loro potere. Il futuro é una profondità impensabile, non trova spazio in vissuti trascinati sulla superficie di un presente cronico che oscilla tra una notifica di whatsapp e una partita a clash royale. Quando si riesce a concepire come una cosa in cui si è implicati, la formazione è svalutata, scollata da possibilità lavorative. Il lavoro è piuttosto connesso a presunte attitudini possedute “a prescindere”, o di cui ci si immagina in possesso per appartenenza familiare. Mi viene chiesto di “uscire” insieme, di andare in giardino, di “fare fuori la formazione”. Ed ecco il paradosso a cui mi invitano, chiedendomi di abitarlo insieme. Da un lato sembra mi chiedano di eliminare la dimensione formativa dal nostro rapporto e, se vogliamo, da quello che hanno con la scuola, per loro occasione di socialità più che di formazione. Dall’altro invitarmi a condividere il “fuori” sembra evocare la fatica che sentono nel trasformare l’esperienza scolastica in qualcosa di esportabile, utile fuori della scuola, in un fuori, angosciante ed omogeneizzante quanto il dentro che li vuole “ultimi”. Qui “lavoro sul metodo” diventa condividere azioni alternative alle attese conformiste che sperimentano nel rapporto con la scuola. Andare in giardino diventa possibile, e gli scalini del retro, quelli nascosti in cui di solito ci si fa una “canna”, diventano teatro di fantasie considerate osé: si immagina il lavoro di parrucchiere o di gommista, si riesce a dire che “fare di tutto per essere bocciati” è un modo per rimanere a scuola perché è a scuola che si sente di avere un ruolo entro un contesto sociale.
Un aneddoto. Nel secondo incontro, nella stanza piena di libri e di oggetti in disuso, una studentessa particolarmente lamentosa circa il sentirsi obbligata a stare a scuola, preferendo andare in giro nel vicino centro commerciale, indica ai compagni il mappamondo “oh, mica l’avevo mai visto che è una palla di Prima Classe!”. Il riferimento alla pregiata marca molto in voga tra i giovani, caratterizzata dalla riproduzione di carte geografiche su borse e accessori, parrebbe sminuire la funzione del mappamondo come strumento di apprendimento. Eppure, entro la conversazione nel gruppo di lavoro, diviene simbolo attraverso cui provare a recuperare tracce di continuità tra la scuola ed esperienze esterne che paiono difficili da tenere insieme. Metodo è, dunque, provare a impattare sul rischio di dispersione scolastica che pare caratterizzare questo gruppo. Una dispersione che passa attraverso l’attrito e l’incomunicabilità sperimentata dagli studenti tra la cultura proposta entro i contesti formativi e quelle incontrate e partecipate entro le appartenenze territoriali.
Nel terzo gruppo le tesine sono vissute come “pro forma” da esibire o “obblighi” già assolti, di cui non vale la pena parlare. Sembra più faticoso rintracciare connessioni tra dentro e fuori la formazione scolastica, così come tra discipline. I contesti di provenienza sono molto eterogenei, poco esplorati e condivisi. Le esperienze amicali esterne vissute come riferimenti affettivi sovrainvestiti in rapporto ad una esperienza relazionale scolastica vissuta come insoddisfacente. La classe non viene vissuta come “gruppo di lavoro” piuttosto come “sommatoria di individui” spesso in conflitto. La questione è vissuta come molto rilevante tanto che si mostra utile ricorrere ad una esercitazione che abbia come oggetto l’esame. A turno ciascuno studente è invitato ad interpretare il ruolo di candidato o di docente di commissione. Gli argomenti oggetto di interrogazione sono scelti dagli studenti stessi e sorteggiati in ciascun turno. Il mandato della simulazione prevede che la verifica tenga insieme più aspetti: la preparazione del candidato, la sua capacità di resocontare contenuti e processi formativi, la competenza della commissione ad oscillare tra una centratura sulla materia e la collaborazione tra colleghi e con il candidato stesso. Ogni “discussione” prevede, dunque, che ad essere promosso o bocciato non sia il singolo ma tutta la dinamica di esame; ciò che viene premiata è la collaborazione e la competenza di tutti i partecipanti al processo. Sostenere e collaborare non sono sinonimo di “suggerire”, “facilitare”, “abbonare” ma aiutare l’altro a pensare attorno a conoscenze acquisite. Ciascuna commissione e ciascun candidato emette una valutazione sull’esame in termini di agio, divertimento, qualità e pertinenza delle domande e delle risposte. Attraverso la tecnica del role playing, dunque, l’esame diventa per gli studenti pretesto per sperimentare continuità tra esperienza di affidabilità delle relazioni di apprendimento e contenuto stesso dell’apprendimento.
Ciò che emerge è un importante desiderio di cogliere, entro l’istituzione scolastica, la disponibilità ad essere accompagnati a costruire e riconoscere connessioni tra contenuti, metodi e relazioni di apprendimento. La conflittualità di partenza si connota così come sintomo della fatica a costruire fiducia nella formazione come possibilità di sviluppo e a rintracciare nelle relazioni formative un interlocutore a cui far riferimento per investire sulle risorse proprie e quelle dei contesti di appartenenza.
L’incontro in plenaria, della durata di 1 ora e 20 minuti, ha luogo in aula. L’obiettivo dell’incontro è permettere agli studenti di esplorare le rappresentazioni attorno al percorso formativo condiviso nel laboratorio con me e quelle relative all’esperienza scolastica in corso, nell’idea di costruire categorie con cui nominare un metodo spendibile entro l’esperienza di esame e nel futuro formativo.
Gli studenti vengono invitati a giocare un nuovo role playing. Le sedie in cerchio e due nel centro. Due attori volontari interpretano due personaggi inventati in gruppo di cui mi limito a delineare alcune caratteristiche: uno di loro è uno studente “in uscita”, l’altro uno studente “in entrata” della scuola; parlano della scuola, si scambiano domande e impressioni, si raccontano la scuola sperimentata e quella a cui vorrebbero partecipare, si scambiano conoscenze e fanno una autovalutazione del proprio percorso formativo. Nomi, aspetto fisico, gusti, interessi, atteggiamenti vengono scelti dagli studenti.
I personaggi che la classe inventa sembrano il precipitato di stereotipi: geniale, ossessivamente preciso, tutto orientato alla prestazione l’uno, deforme, violento, emarginato l’altro. Chi “entra” a scuola, chi “viene da fuori” viene delineato come trasgressivo per definizione, una trasgressione mortifera e indesiderabile; chi “esce” da scuola e, quindi, finora è stato “dentro”, è immaginato come conformista, adeguato ad attese e valori che paiono altrettanto capaci di mortificare identità e desideri. Inizia una discussione di gruppo che passa in rassegna i tre anni di formazione, le amicizie e gli “amori” che stanno fuori, quelli che “stanno dentro”. Si recuperano attività e letture in classe, spettacoli, lezioni, concerti, film. Cominciano ad essere recuperate esperienze e competenze acquisite insieme nella formazione.
“Metodo” in classe diviene esperienza di deframmentazione. I due personaggi sembrano rappresentare stereotipi connessi al difficile rapporto tra le esperienze a scuola e quelle nel territorio, culture da cui ci si sente influenzati, invitati a cambiare, a cui aderire o trasgredire. Finchè i due personaggi restano ancorati a identità rigide, difensive, il gioco è noioso e solitario. Quando cominciano ad incuriosirsi l’uno dell’altro, delle proprie differenze, il gruppo recupera interesse a partecipare ed emergono associazioni relative ad esperienze scolastiche vissute come capaci di tenere insieme interessi, apprendimento e conoscenze, in grado di connotarsi come ponte tra discipline entro la scuola, e tra questa e la vita “fuori”. Sull’onda di questa discussione, due ragazze si propongono per interpretare due nuovi personaggi, meno estremi, meno stereotipali, ma la classe sembra non riuscire a sostenere la proposta, “ma noi siamo spacciati!” urla qualcuno, “ora è inutile… ce ne andiamo” aggiunge qualcun altro, come a volersi convincere dell’inutilità di esplicitare la possibilità di rintracciare prodotti condivisi. Riconoscere di aver condiviso contenuti e relazioni formative pare un passaggio difficile da sostenere perché porta con sé il dover riconoscere che la scuola si sta concludendo e che, forse, non si vuole soltanto “stare e andare altrove”.
Quando esco dall’aula sembra che la classe si senta in bilico. Sembra ci sia stato uno spostamento importante dalle dimensioni stereotipali da cui eravamo partiti ma avverto una profonda solitudine intrattabile, almeno per ora. Nel corridoio vengo raggiunta da due studenti, la”prima della classe” e “l’ultimo”, quello che “ripete l’anno” da tempo.
“Ma di queste cose parlerà con i prof?” Mi chiedono in coro, con un misto di desiderio e paura circa le sorti del nostro lavoro. Mi pare che la domanda, anch’essa emozionalmente in bilico, sia in rapporto alla solitudine. Mi sembra voglia ricordare a me e alla scuola che “da soli” non possono occuparsi di pensare la formazione, di presidiare posizioni trasgressive e competenti come quelle costruite nel tempo dei nostri incontri.
Conclusioni
Questa esperienza pare ci racconti la necessità che le scuole sviluppino un metodo per leggere e trattare la domanda formativa che incontrano e costruiscono, una domanda che esiste oltre l’obbligo formativo e che connota la formazione come fenomeno complesso che attiene relazioni più che individui.
La fantasia che l’obbligo garantisca risultati sembra connessa ad una scissione tra dentro e fuori l’esperienza scolastica, che si traduce nella fatica a tenere insieme appartenenze e obiettivi di sviluppo. Le culture della formazione sostenute dalla scuola e dalle famiglie sembrano essere vissute dagli studenti come questioni che attengono fortemente la formazione e l’uso che sentono di poter fare dell’apprendimento. La domanda di apprendimento alla scuola, dunque, passa attraverso la competenza della scuola stessa a leggere e manutenere i rapporti di continuità con le scuole primarie di provenienza, con le famiglie e con i pari che compongono le classi e l’utenza scolastica; passa, se vogliamo, attraverso la competenza a farsi carico di costruire continuità per permettere ai giovani di pensare futuro.